Si ritorna oggi a parlare di eutanasia, grazie a Fabiano Antoniani, alias Dj Fabo, che, tetraplegico e cieco a 39 anni a seguito di un incidente d’auto, dopo vari tentativi inutili di cura, si è rivolto ad una clinica svizzera per “scegliere di morire senza soffrire”. La tragica vicenda riporta alla ribalta il dibattito parlamentare sull’eutanasia, avviato dal 2013, ma che sta da un anno languendo nel dimenticatoio.
Mettendo da parte ogni considerazione personale sull’importante scelta di Dj Fabo, mi sembra che la sua problematica sia da leggere, una volta di più, come una questione mal posta.
“Diritto alla vita”, “dovere della vita” qui non c’entrano proprio, stiamo riflettendo sulla possibilità, meramente laica e “civile”, di disporre della propria esistenza.
Se si trattasse di una questione morale o religiosa, ci sarebbe chi potrebbe obiettare che nessuno può togliere ad un uomo la libertà di sbagliare, se di errore si tratta.
Tanto più perché questa libertà, almeno secondo la nostra religione cattolica, è salvaguardata in primis da Dio stesso, con il suo rispetto del libero arbitrio dell’uomo, e nei confronti, non già della pregevole, ma pur sempre limitata nel tempo, esistenza terrena, bensì della preziosissima vita eterna, che l’uomo è liberissimo di compromettere con azioni amorali, senza essere in questo impedito in nessun modo dalla tutela del Creatore.
Ci potrebbe essere chi dice che la morte dolce ha una connotazione molto diversa dal suicidio compiuto da una persona sana che deliberatamente sceglie di rifiutare la vita, poiché un malato cerca con questa scelta di porre fine ad una sofferenza che è per lui intollerabile.
Ci sarebbe chi osserva che la soglia del dolore e della sopportazione è individuale e che nessuno può sapere meglio di me quanto io soffro in una certa situazione.
Chi concluderebbe che una persona tetraplegica non può fare con le sue proprie mani ciò che un normodotato farebbe e che, solo per questa sua necessità di essere aiutata a porre fine alla sua esistenza, si trova imprigionata in questo incidente burocratico di fatale crudeltà…
Ma non ce n’è bisogno. Non c’è bisogno di tutte queste considerazioni, perché quella cui siamo di fronte è una questione di diritto riguardante la libertà di mettere mano alla vita propria o altrui in uno stato laico e civile, coerente con le proprie stesse leggi.
Non vedo perché uno stato come quello italiano, che da oltre trent’anni autorizza con l’aborto la soppressione della vita di altri esseri umani, si faccia tanti scrupoli nel lasciare ad ognuno la libertà di disporre della propria.
FOTO PER INTERVISTA UMBERTO D'ANNAMi sembra l’ennesima discriminazione verso le persone malate o disabili, quella di privarle della propria scelta di continuare o meno il loro percorso di sofferenza, togliendo loro quell’unico valore, quello della libertà, nel quale esse non sono disabili e diverse…
Legalizzare l’eutanasia non vuol dire incoraggiarla, ma fare in modo che la sopravvivenza malgrado la malattia sia una scelta consapevole, dettata dall’apprezzamento per il dono della vita, e non una trappola, un ulteriore handicap.
E allora forse la questione ben posta suonerebbe come “lotta all’accanimento terapeutico”, come “meno fondi alla medicina vincente sulla malattia e più fondi per la più dimessa ma enormemente più sapiente cura lenitiva della sofferenza”, come “maggior impegno per l’accompagnamento alla morte”.
Del resto, se guardiamo bene, a quali poteri fa più comodo avere un malato bisognoso di farmaci imprigionato per anni in un letto, piuttosto che una persona che in modo naturale viene, spiritualmente e fisicamente, aiutata ad avvicinarsi al momento della propria fine?

Umberto D’Anna (spastico dalla nascita)

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