Ad inaugurare l’era delle “maniere forti” nei controlli fiscali contro l’evasione, fu il Governo Monti, che per primo predispose tutta una serie di nuove misure per verificare la corrispondenza del reale stile di vita dei contribuenti con i redditi dichiarati, a dire il vero, non sempre così proporzionale.

Nessuno può dimenticare il “blitz” a Cortina d’Ampezzo nel dicembre 2011 quando molti dichiaranti reddito basso, che addirittura per questo ricevevano dallo Stato sovvenzioni varie, vennero trovati a bordo di suv e ad alloggiare in alberghi lussuosi. Da allora i controlli fiscali, così come anche le dichiarazioni reddituali, sono diventati molto più rigorosi, secondo alcuni anche troppo.

L’ultimo di questi metodi di controllo è il Telepass, uno strumento di per sé anomalo per i controlli fiscali, ma avallato dalla Corte di Cassazione in una sua recente sentenza. La logica giurisprudenziale ricalca quella governativa del 2011: chi si dedica a continui viaggi, per lavoro o solo per diletto, deve dimostrare che questa prassi non sia incompatibile con i redditi dichiarati, soprattutto se bassi.

La Cassazione ha riconosciuto l’utilizzabilità dei dati autostradali ai fini dell’accertamento fiscale, chiarendo che anche se il Telepass non trasmette i dati del proprietario all’Agenzia delle Entrate, questi potrebbero pur sempre funzionare come un’autodenuncia.

Si tratta di una sentenza che farà senz’altro discutere; ci si chiede fin quanto è lecito spingersi nella vita del contribuente e se il diritto alla privacy non sia stato eccessivamente ridimensionato, se anche un semplice viaggio in autostrada può costare così caro.

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