Chi si aspettava da Expo 2015 il punto sulla situazione mondiale delle risorse energetiche ed alimentari con proposte concrete di sostenibilità, forse era destinato ad essere deluso.

Ma lo è stato anche chi si raffigurava semplicemente un mercatino planetario di specialità alimentari: perché Expo, che questa settimana si conclude, non è stato in effetti altro che l’obiettiva vetrina della più restrittiva e globalizzante versione del commercio su scala mondiale.

Personalmente, anch’io, pur sapendo che “siamo in Italia”, ci ero andato con alcune aspettative, anche perché gli slogan pubblicitari sembravano andare nel senso di uno spazio di intenzionata cooperazione tra i popoli e a favore dei popoli.

Ma di questo ho trovato solo la multiforme e colorata marea degli spettatori, pervenuta sull’avvenieristico Decumano come una prefigurazione dell’umanità del futuro, senza distinzioni di colore, cultura, storia, ma tutta convergente verso il comune desiderio di appropriarsi di un mondo comune, reso accessibile dalla simulazione anche a chi non potrà mai raggiungerlo nella realtà. Grazie, perciò alla gente che faceva la coda davanti ai – costosissimi – stand gastronomici per gustarvi il cibo etnico spendendo i pochi risparmi, visto che “non ci capiterà mai di andare in questi paesi”. Grazie ai bambini sui passeggini ed in braccio ai genitori, agli invalidi sulle carrozzelle, agli anziani, tutti partecipi di questa festa dell’accessibilità.

Ma di accessibile purtroppo ho trovato solo l’involucro – e neanche tanto, vista la disorganizzazione e le lunghe file di attesa: ma non è venuto in mente a nessuno di mettere i numeri segnaposto come al supermercato?

Per il resto, mi sembra che l’accesso sia stato negato proprio a coloro che dovevano essere i principali invitati: i paesi con problemi di sottosviluppo

e di miseria. Intendiamoci, qui “negato” significa “ non agevolato”, ma è lo stesso.

Con mia figlia avevo pensato di fare un itinerario scegliendo qualche paese all’avanguardia, qualcuno in via di sviluppo e qualche zona povera: ma inutilmente ho cercato lungo il percorso tracce di quella parte dell’umanità che viene deprivata del suo pane quotidiano. E nemmeno i “cluster”, zone “a tema” inventate per poter fare almeno comparire i nomi di quei popoli, sono stati anche lontanamente efficaci per prospettare allo spettatore la realtà di quelle culture violate.

Non pretendevo di vedere qualche immagine della moltitudine dei bambini che muoiono di fame – sarebbe stata troppo stonata nell’atmosfera positiva del discorso di ringraziamento planetario di Obama! Ma, anche senza scomodare J.Cohen, avevo pensato ad una temporanea “correzione” delle leggi dell’economia mondiale. Per intenderci, credevo di trovare uno spazio in cui i paesi “poveri” potessero esporre e pubblicizzare equamente, se non in modo privilegiato, i loro prodotti. Con le marche, sì, con precise indicazioni di come e dove poterli comprare, magari persino con qualche bugia sulla genuinità dei metodi biologici di produzione, tipo pubblicità della Nestlè… Qualcosa di simile al negozietto di “Altroconsumo” della mia città, ma più in grande. Da che mondo è mondo, una fiera è fatta per vendere, e per vendere ci vogliono informazioni circostanziate, se non addirittura condizionamento psicologico.

Avevo immaginato che, per una volta, i paesi ad alta tecnologia, come vengono chiamati a scuola, avessero messo le loro costose coreografie al servizio del mercato “povero”, non per risolvere i problemi del pianeta, ma per fare qualche piccolo passo concreto verso una rinascita delle economie del Sud del mondo: qualche prodotto locale commercializzato come si deve, qualche azienda alimentare che si vedesse aprire uno spiraglio nella competizione internazionale…

Magari facendo tacere nel frattempo i grossi nomi dell’economia già favorita, gli echi più o meno coscienti delle multinazionali, la pubblicità

che tutti i giorni inonda il cervello del consumatore. Facendo loro un torto, sì, diciamolo, ma che senso ha fare parti uguali fra i disuguali?

Una globalizzazione “controtendenza”, almeno per una volta, almeno per essere originali, per “far finta” di fare sul serio…

Non sarebbe cambiato granché, ma i soliti padroni avrebbero fatto una figura migliore…

Tolto questo, che cosa resta?

L’indiscutibile bellezza di alcuni allestimenti esterni – visto che l’interno, la maggior parte del pubblico non l’ha potuto visitare – ; la stupenda presentazione del nostro paese, nel padiglione Italia, così caleidoscopio da far girare la testa ma anche da presentare pure gli abusi edilizi, oltre ai meriti dell’artigianato italiano; le belle parole vuote del presidente Obama; la carta di Milano, che abbiamo sottoscritto chiedendoci se la firma elettronica sarebbe stata valida per far muovere qualcosa o se era un’altra chimera…

Uno sguardo interessato negli occhi di mia figlia, che, se sono genitore, dovrò smaliziare.

Umberto D’Anna

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