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Costabissara. A tu per tu con Dario Loison, il pasticciere gourmet che disegna con i sapori

La prima cosa che colpisce è il profumo: intenso, avvolgente, persistente, come un abbraccio. Poi le confezioni: eleganti, preziose, esibite al pari di gioielli, sottolineate da un sapiente gioco di luci e di colori. Qui davanti il liquirizia e zafferano, lì in alto la rosa, accanto c’è l’albicocca e spezie, giù in basso l’amarena e cannella, sullo scaffale in primo piano uno degli ultimi arrivati, il nero sale al cioccolato e caramello salato. Sembra perfino riduttivo chiamarli panettoni, colombe, pandori, veneziane, biscotti, focacce. Qui siamo nel sacro tempio di Dario Loison, artefice e motore instancabile di una delle più acclamate pasticcerie gourmet del mondo, eccellenza del made in Italy con sede nel cuore dell’Alto Vicentino, Costabissara, dov’è nato poco più di cinquant’anni fa. Con intuito e straordinaria creatività ha sfornato un piccolo gioiello imprenditoriale che oggi è in grado di fatturare nove milioni di euro l’anno, metà dei quali nel mercato estero, in oltre 50 paesi. E, soprattutto, in grado di portare sulle tavole dolci mai visti, mai assaggiati, mai nemmeno immaginati. Con sapienza artigiana e ingredienti al top di qualità. Innovazione, appunto.

Loison, lei è un giocoliere d’ingredienti, un funambolo di fragranze. Prendendo in prestito la famosa frase di Andy Warhol, “Credo che sia un artista chiunque sappia fare bene una cosa. Cucinare, ad esempio”, possiamo definirla un artista?

«Cibo e arte sono strettamente collegati, storicamente, filosoficamente. Ma per fare arte, di qualsiasi genere, bisogna avere un proprio gusto. Bisogna avere qualcosa da dire. E prima ancora devono esserci le condizioni per esprimere la propria creatività. Io ho dovuto sudare per conquistarmi questa opportunità. La prima volta che ho messo piede qui in azienda c’era mio padre a guidarla, e lui l’aveva ereditata da mio nonno. Io, nonostante la giovane età, portavo il mio contributo d’idee, d’innovazione per come la vedevo, grazie soprattutto alla mia formazione in ragioneria ed economia, e alla mia passione per il marketing. Inventavo, immaginavo, proponevo, ma ricevevo sempre uno stop. Sempre. Anche quando si trattava di applicare le più elementari regole economiche. Qualsiasi mia proposta veniva stoppata. Erano scontri continui, anche aspri. Dopo un po’ ho capito che qui, con mio padre, non avrei mai trovato il mio spazio. Con lui era impossibile parlare di creatività o di economia. Se fossi rimasto avrei solo fatto produzione. Così ho preferito andarmene».

Un’altra pasticceria?

«No, tutt’altro settore. Macchine per conceria. Andavo a venderle in giro per il mondo. Era altro rispetto alla mia strada, ma in quel periodo sentivo la necessità di fare e di non subire. Ed è stata un’esperienza illuminante e costruttiva. Oltre che utile, perché mi ha permesso di rendermi autonomo economicamente, e nel 1992 di fare il gran passo, quando ho acquistato da mio padre la Loison».

A quel punto ha ribaltato l’azienda?

«Diciamo che l’ho fatta evolvere. Con un punto fermo: la tradizione è importante quanto, se non più, dell’innovazione. La Loison è stata fondata nel 1934 da mio nonno, si chiamava Tranquillo, non l’ho mai conosciuto. Era un piccolo forno, pane principalmente. Finita la guerra cominciò a produrre focacce con fichi e uvetta. Nel ’55 subentrò mio padre Alessandro e con lui cominciò la produzione di panettoni e pandori. Poi sono arrivato io».

E Loison è diventato un marchio conosciuto e apprezzato in tutto il mondo. Come ha fatto?

«Volevo scrivere qualcosa che lasciasse segno, qualcosa di cui andar fiero, a testa alta. Quindi innovare, sempre nel rispetto della nostra storia. Nel mondo del cibo moltissimi copiano, pochi fanno vera innovazione. Così ho deciso di puntare sulla più assoluta qualità e trasparenza. Sulla genuinità senza trucchi. Le racconto un episodio accaduto negli anni in cui vendevo macchine per concerie. Ero in Asia, un giro durato quasi un mese in quindici diversi paesi. Era il 1986. I concorrenti erano tedeschi e francesi, ma le nostre macchine avevano un prezzo più competitivo. “Voi italiani siete i più bravi – mi dicevano i clienti – però siete anche inaffidabili. Paghiamo meno i vostri macchinari, ma poi c’è sempre qualcosa che non va, così finisce che li paghiamo più degli altri”. Mi infastidiva moltissimo, ma devo ammettere, con amarezza, che avevano ragione. Erano affascinati dalla fantasia degli italiani, ma alla fine sceglievano l’affidabilità dei tedeschi. Ecco, nella mia azienda ho voluto portare fantasia e affidabilità. Quel rigore, quella serietà, quell’onestà. Loison è oggi sinonimo di qualità, eccellenza, creatività, affidabilità e trasparenza».

E oggi è riconosciuta questa serietà, questa affidabilità?

«Altroché. Abbiamo una gamma d’ingredienti come pochissimi in Italia. E scriviamo tutto. Nella confezione di ogni nostro prodotto c’è un libretto che spiega ogni dettaglio della produzione. Non raccontiamo bugie».

Allora parliamo di ingredienti.

«Anzitutto le materie prime, che scegliamo con cura maniacale. Partendo dalla base: uova freschissime di allevamenti sicuri, latte e burro di montagna, fior di farina, zucchero italiano. Poi gli aromi. Un esempio su tutti: il Mandarino tardivo di Ciaculli, che cresce in una piccola zona fuori Palermo. Piccoli frutti che maturano a marzo, con una buccia sottile ma ricca di oli aromatizzanti, strapieno di semini e fastidioso al palato. L’abbiamo scoperto grazie a Slow Food. Ma se tanti oggi ne parlano è grazie a Loison».

Altri ingredienti particolari?

«Lo Sciroppo di rose liguri, che farcisce il nostro panettone alla Rosa. E’ ottenuto da una formula di lavorazione dei petali di rosa che risale al 1600. Poi c’è il Chinotto di Savona, il Fico Dottato di Calabria, il Cedro di Diamante, il Pistacchio di Bronte, le Mandorle di Avola, le Nocciole delle Langhe, il Sale di Cervia, il Miele Millefiori delle nostre montagne. Soltanto il meglio del meglio».

Tutto rigorosamente italiano?

«No assolutamente, è l’eccellenza che ci guida nella scelta degli ingredienti, e la qualità non ha confini. La Vaniglia che usiamo è la Mananara, presidio Slow Food, tra le più pregiate al mondo, coltivata in Madagascar. Poi vari tipi di cacao dal Sud America, e dalla Turchia l’Uvetta sultanina. Facciamo ricerca sugli ingredienti come pochissimi fanno in Italia. E ricerca vuol dire innovazione, vuol dire andare oltre, capire. Siamo stati i primi in Italia a usare un burro chiarificato e tostato, i primi a utilizzare un mono cru di cioccolato lavorato in un certo modo per fare prodotti lievitati, i primi in Italia a fare il panettone al vino passito e alla grappa, che tanti hanno poi copiato. Grappa Poli peraltro, un prodotto del nostro territorio».

Fare ricerca vuol dire anche correggere, limare, riconoscere l’imperfezione. Ci racconta qual è stato il suo ingrediente sbagliato? Quello che non è mai riuscito a portare sul mercato?

«Non ho mai fatto un panettone alla birra. O meglio, l’ho provato, diverse volte, ma non mi ha mai convinto al punto di produrlo. Perché non credevo di essere in grado di restituire al mio cliente una comprensione del gusto della birra che avevo messo nel panettone, in grado di sovrastare il gusto medio del dolce, quindi di dare un imprinting. Ma non è un cruccio, nessuno mi obbliga a fare tutti i tipi di panettoni. Forse ho soltanto provato con la birra sbagliata. Un mio amico mi ha fatto assaggiare recentemente una birra pazzesca, 28 gradi, una specie di brandy. Quella non è birra, è di più. Ecco, con quella forse riuscirei a fare un panettone».

Un solo insuccesso, se così vogliamo definirlo, in 26 anni di attività è un risultato lusinghiero…

«C’è stato anche altro ovviamente. Se faccio 40 formulazioni nuove il 10% può anche non andare, è fisiologico. In laboratorio ho cose strepitose che non riesco a fare perché sono troppo innovative. Stiamo studiando un abbinamento con frutta e erbe ed è fermo da tre anni perché ancora oggi sarebbe difficile spiegarlo al consumatore. Da tre anni provo, sperimento, mi avvicino. Ma la strada è quella: pensi al panettone alla liquirizia, alla camomilla, quello alla rosa che è stato un grande successo. Siamo stati i primi a capire, e a insegnare a mezza Italia, che la frutta poteva essere la frontiera dell’innovazione nel nostro campo. In fondo cos’è il panettone? Un dolce fruttato. L’industria fa un prodotto che non ha trasporto al palato, che praticamente non ha gusto. Invece noi, che siamo artigiani nel cuore oltre che nel metodo, abbiamo cambiato configurazione. Abbiamo creato una pasta più gialla e più dolce, inserito gusti di frutta, di fiori, di spezie, così da offrire sensazioni e contrasti mai sperimentati prima. Poi siamo passati ai fiori. E ora alle spezie, un mondo incredibile. Così, innovando, abbiamo creato prodotti gourmet».

La creatività può essere governata imprenditorialmente? Guidata?

«Certamente. Non si può lasciare spazio all’estro incontrollato. La creatività va indirizzata su una strategia ben definita. Del resto oggi In Italia fare impresa è un’impresa. E’ indispensabile capire il proprio vantaggio competitivo e proteggere le proprie idee. Solo così si possono ottenere risultati: strategia e marketing. Pensi a Francesco Moser e ai suoi record in pista quando non era più un ragazzino: non bastò la gamba, fu indispensabile il metodo, la costanza, lo studio dei fattori collaterali per ottenere il risultato finale. I dettagli non devono mai essere trascurati. Quello che a me piace fare è impresa di qualità, impresa di gusto. Cose che mi piacciono, in tutti i sensi».

Costa molto assaggiare un prodotto Loison?

«Costa quanto assaggiare un prodotto di fascia alta nel Luxury Food. Costa molto assaggiare un Sauternes? Diciamo così: assaggiare due, tre volte un prodotto Loison alza molto l’asticella del proprio personale gusto. Crea addiction, come dicono gli inglesi. Dipendenza positiva. E chi assaggia conferma. Poi la cultura del cibo, la ricerca del gusto, nasce anche dalla comunicazione, dal dialogo che abbiamo con i nostri clienti ai quali spieghiamo passo dopo passo, con i libretti, come nasce quel panettone, quella veneziana, e perché li facciamo in quel modo. Ci sono vini da 200-300 euro sul mercato che non danno alcuna spiegazione del prodotto, come nasce, da dove viene, solo l’etichetta a parlare. Noi continuiamo sulla nostra strada. E siccome non dimentichiamo il detto italiani-inaffidabili, scriviamo sempre sulle confezioni “il gusto italiano fatto in Italia”. Con orgoglio. Dobbiamo preservare il valore della nostra produzione».

Quanto è importante l’elemento pazienza nel vostro lavoro?

«E’ indispensabile. Nei libretti che mettiamo all’interno dei nostri prodotti, le fasi di lavorazione vengono stilizzate con il logo di un orologio, di lancette che camminano. Perché per realizzare un panettone Loison servono 72 ore, non una di meno. Perché dopo ogni impasto, e ne facciamo 3, c’è bisogno di una fase di riposo. Perché la cottura dev’essere lenta, il raffreddamento naturale, il confezionamento fatto a mano. La pazienza è rispetto della tradizione, della storia scritta dai nostri nonni. E si trasforma in garanzia di qualità per chi assaggia i nostri prodotti».

Quanto produce Loison e dove esporta?

«Produciamo tra i 50 e i 60 quintali di dolci al giorno qui a Costabissara. I nostri panettoni arrivano ovunque, Canada, Stati Uniti, Honduras e Guatemala, isolette come Bahamas e Bermuda, il Sud America con Venezuela, Uruguay, Brasile, Argentina, Perù, Colombia. Poi Sud Africa, poco Nordafrica, qualcosa in Medio Oriente, Dubai, Qatar, poi Thailandia, Filippine, Indonesia, Hong Kong, Cina, Corea, Giappone. E anche Australia e Nuova Zelanda. Ovviamente Russia e tutta l’Unione Europea».

Chi sono i vostri principali clienti?

«Chef stellati di grandi alberghi, più in generale ristoranti, negozi di specialità d’alta gamma o store con reparti culinari all’interno, in alcuni paesi piccoli supermercati gourmet. Puntiamo molto sulla destagionalizzazione del prodotto. Un nostro panettone è buono a Natale come d’estate. All’estero l’hanno già capito da molto tempo, in Italia stiamo cominciando. E gli chef, ce ne sono una trentina nel mondo che ci apprezzano e che ci vogliono bene, ci stanno aiutando a far capire che il panettone può essere meravigliosamente utilizzato in cucina, anche con accostamenti dolce-salato di qualità suprema. Uno chef belga, due stelle Michelin, che era passato a trovarci qui a Costabissara ci ha fatto assaggiare una bruschetta di panettone con indivia belga e foie gras: spettacolare. Abbiamo perfino pubblicato un libro sul panettone e la sua storia nel mondo, con un’appendice di ricette salate: dal salmone marinato in crosta di panettone alle tagliatelle di panettone con ragù bianco di vitello».

E gli italiani gradiscono?

«Gli italiani stanno cominciando a capire, ma qui da noi abbiamo una tale varietà di offerta gastronomica che le novità fanno fatica a entrare. Certo, se le ricette a base di panettone venissero proposte da una più ampia platea di chef, anche non stellati, forse si smetterebbe di pensare al panettone legandolo soltanto alle feste di Natale».

Lei è un imprenditore che ogni giorno ha rapporti col mondo intero e continua ad avere sede a Costabissara, nel suo paese d’origine. Cosa la lega a questo territorio?

«Qui sono le mie radici, la mia casa. E per fortuna c’è internet che mi consente di raggiungere con enorme facilità i miei clienti, in tempo reale, ovunque nel mondo, a costi praticamente nulli. Sono stato uno dei pionieri dell’e-commerce in Italia. Il primo sito l’ho realizzato nel febbraio del 1996: questo mi ha consentito di rivoluzionare il metodo di gestione delle vendite. Il primo cliente è arrivato dalla Svezia, il secondo dal Giappone. Al punto che Google, in assoluta autonomia, ha nominato Loison “ambasciatori digitali”. Su circa 80 aziende monitorate, ne hanno selezionate tre, tra cui noi, come esempio di business fortemente influenzato e guidato da strumenti web. Eric Schimdt, allora Ceo di Google e ora presidente del Consiglio d’amministrazione, in un’intervista a Repubblica di circa un anno e mezzo fa, ha citato la pasticceria Loison come esempio per rappresentare l’evoluzione di Google nel mondo».

Dopo tanto dolce apriamo una parentesi che sappiamo per lei amara, e che riguarda in prima persona questo territorio: la Banca Popolare di Vicenza.

«La Popolare di Vicenza è senza dubbio il mio più grande insuccesso personale. Perché non sono riuscito a far aprire gli occhi ai miei colleghi imprenditori che continuavano a dare soldi a questi criminali che hanno messo in atto azioni di finanza criminale. Ma soprattutto perché ho accettato, all’epoca, di offrire la mia presenza, la mia persona, il mio nome, nell’organizzare cene per costruire relazioni. Ho firmato carte per un eccesso di amichevole disponibilità. E’ stato un grave errore. Quelle carte oggi mi stanno procurando seri problemi a livello personale e familiare. Ma non aver aiutato il mondo economico vicentino a capire il problema Zonin mi fa impazzire. Dieci miliardi di euro di capitale netto perso dalla nostra provincia. Un disastro. E vedere che il pastificio Zara a causa della Banca Popolare di Vicenza è a un passo dal baratro, che il colorificio Zetagi di Olmo di Creazzo è stato venduto agli israeliani, fa davvero molto male. Casi conclamati, ma ce ne sono un’infinità. Ho amici imprenditori, persone serissime, onesti lavoratori, perfetta incarnazione dello spirito calvinista di questa terra, con aziende di decine di dipendenti. Alcuni di loro sono rimasti senza un soldo. Senza nemmeno potersi permettere di cambiare la macchina. A 60 anni. Uno di loro mi ha confessato: “Devo riscrivere il mio modo di vivere”. Ha senso tutto ciò? Ha senso lavorare una vita, costruire, inventarsi e poi d’un tratto ritrovarsi fuori strada per colpa di criminali? E’ un problema enorme, che tocca centinaia di famiglie. E nessuno ha avuto il coraggio di reagire, nessuno a Vicenza che abbia fatto qualcosa che lasciasse il segno, un gesto eclatante, nulla. Siamo rimasti passivi, come di fronte a un evento naturale. Chi ha potuto si è scansato. Doveva succedere, pazienza. Questa è senza alcun dubbio la mia più grande sconfitta personale».

Torniamo ai vostri dolci. Ci svela qual è il suo preferito?

«Sempre l’ultimo che stiamo facendo, l’ultimo che esce dal laboratorio dopo il periodo di ricerca e sviluppo. Le veneziane alle spezie che stiamo producendo ora ad esempio, dolci meravigliosi che raccontano la storia di Venezia, storia che noi raccontiamo con i libretti, con le confezioni storiche. Oppure il nuovo panettone di quest’anno, al cioccolato e caramello salato: una meraviglia per i sensi. Mi viene in mente ancora un aggettivo inglese per definirlo, gorgeous, a indicare la massima golosità possibile. Mangi dolce e spunta l’amaro del cioccolato venezuelano, quasi dal sapore affumicato, sembra barricato, e poi emerge il contrasto con la crema salata. Stimola tutti i sensi, permette di sentire molta innovazione del gusto».

E il più venduto?

«Il panettone al Mandarino tardivo di Ciaculli».

Uno dei punti di forza dei vostri prodotti è anche nel packaging, curato da sua moglie, Sonia Pilla. Eleganti, raffinati, perfino utili. La clientela apprezza?

«Moltissimo. Nelle nostre confezioni c’è design, c’è arte, c’è storia, c’è creatività che esprime perfettamente la qualità del made in Italy. Qualità fuori e dentro, prima agli occhi, poi al palato. Per ogni linea di prodotto un contenitore studiato e realizzato ad hoc, con collezioni che cambiano e si rinnovano di anno in anno. C’è perfino qualcuno che sceglie di acquistare un dolce in base non al gusto, ma alla confezione. A me questo fa arrabbiare, ma la dice lunga su quanto il packaging sia divenuto parte insostituibile nella realizzazione commerciale dei nostri dolci».

Può farci i nomi di qualche vostro cliente famoso?

«La premessa è che non regaliamo dolci alle celebrità solo per poi vantarcene. Sono tutti clienti, paganti. Una delle tavole più importanti dove arriviamo è quella del Papa. Il primo contatto con il Vaticano fu nel giugno del 2004, per uno degli ultimi viaggi di Papa Wojtyla, in Svizzera. Ci contattò il capo chef dell’Alitalia, chiedendoci di preparare uno scrigno di pasticceria, una scatolina mignon con i nostri biscotti. E fu molto apprezzato. L’anno successivo il Patriarca di Kiev passò qui per andare a Roma e si fermò a comprare un nostro panettone per portarlo al Papa. Da allora gli ordini dal Vaticano sono continuati regolarmente. E oggi i nostri dolci arrivano anche sulla tavola di Papa Francesco».

Altre celebrità?

«Ogni Natale il presidente di Slow Food, Carlo Petrini, ordina qui da noi i panettoni per farne doni. E so per certo che uno, regolarmente, lo spedisce a Carlo d’Inghilterra. Di solito è un panettone da 3 chili al Mandarino tardivo di Ciaculli. Non so se anche la Regina Elisabetta l’abbia assaggiato, ma di certo arriva a Buckingham Palace. Poi per anni abbiamo servito la Fiat, la famiglia Agnelli. Per non parlare poi di ministri e sottosegretari».

Chi sono gli Ambasciatori Loison?

«Sono persone che parlano del prodotto. Non di prezzo, ma di origini delle materie prime, del perché, come, dove e quando i dolci Loison vengono realizzati. Questa a mio avviso è un’innovazione fondamentale».

Immaginazione, cultura, imprenditorialità, perseveranza: quale di questi ingredienti salverà l’Italia?

«La cultura senza dubbio, la parte turistica aiuta il bilancio, ci ripaga e ci identifica. Ma cultura è anche cibo. Posto meraviglioso si può dire in ogni angolo del mondo, mangiato da dio lo dicono solo in Italia. Oggi più che mai i tour operator organizzano viaggi anche soltanto per mangiare, o comunque con il cibo a fare da filo conduttore. E questo è giusto, perché in questo siamo unici. Quanto all’imprenditorialità credo che sia mediamente buona, ma troppo legata al singolo. Non c’è squadra. Come se mancasse fiducia. O anche solo l’umiltà di saper ascoltare. Quando ho cominciato a vendere online, nel 97, nessuno mi ascoltava, mi davano del pazzo. La perseveranza invece è strettamente collegata all’imprenditorialità, vanno a braccetto. Soprattutto qui nell’Alto Vicentino. Siamo noi i calvinisti d’Europa, rigorosi, seri, scrupolosi, onesti. Vicenza non ha castelli e manieri, ma di certo ottimi imprenditori. Nell’Alto Vicentino le banche sono tutte straricche di fondi. Vicenza soffre, qui no».

Ieri azienda artigiana, oggi eccellenza gourmet del made in Italy apprezzata in tutte le lingue del mondo: cosa diventerà domani la Pasticceria Loison?

«L’obiettivo è fare sempre meglio. Trovare un prodotto e renderlo ancora più bello e appetibile sotto tutti i punti di vista. Devo dire che oggi sono molto soddisfatto, ma il confine si può sempre spostare un po’ in avanti. Ora stiamo provando i macarons al panettone: sarebbe bellissimo andare in Francia con un prodotto del genere. Oppure il liquore al gusto di panettone, il panettoncello. E guardi, ho qui le bozze di un libro a fumetti sul panettone… Le idee non mancano, semmai ho il problema opposto: non riuscire a portare avanti tutto quello che mi viene in mente. Dobbiamo continuare a cercare la nostra strada, senza uniformarci, distinguendoci. Sempre avendo come obiettivo il cliente che scelga un approccio alto al cibo. Ecco, l’obiettivo potrebbe essere ostriche-champagne-tartufo-caviale e panettone Loison».

Da Costabissara al top del cibo di lusso, con in testa un cappello da chef, una toque blanche, come dicono i francesi. Dario Loison è così: un vulcano in continua produzione. Uno che nel tempo libero va nelle Università a parlare del suo piccolo miracolo imprenditoriale, o a tenere lezioni di marketing. Uno che accoglie a braccia aperte nel suo laboratorio-ufficio-salotto-negozio chiunque abbia voglia di avvicinarsi a questo mondo pieno di profumi e fragranze. Uno che ha allestito perfino un museo, raccogliendo antichi macchinari per la panificazione di fine 800 e centinaia di utensili di pasticceria, oltre alle raccolte di cartoline storiche, delle monete del pane, ampolle per aromi, locandine e manifesti. Un generoso, un entusiasta. Uno che ha imparato a dipingere con i sapori. A pieno titolo, un’eccellenza imprenditoriale dell’Alto Vicentino.

A.G.

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