Il cuore dell’economia italiana, rappresentato dalle piccole e medie imprese (PMI), sta attraversando una fase critica che ne mette a rischio competitività e continuità. Il problema principale? La crescente carenza di personale qualificato, motivato e stabile.
Le PMI costituiscono il 98% del tessuto imprenditoriale nazionale, ma secondo una ricerca condotta dall’I-Aer (Institute of Applied Economic Research), tra il 2024 e il 2028 il fabbisogno occupazionale in Italia oscillerà tra 31 e 36 milioni di lavoratori, includendo la sostituzione di circa 2,9 milioni di addetti in uscita. Le regioni con la maggiore domanda di nuovi occupati saranno Lombardia, Lazio, Campania, Emilia-Romagna e Veneto.
Nonostante i progressi nella digitalizzazione dei processi di selezione del personale, il 70% delle PMI dichiara di non riuscire a reperire figure adeguate. In questo contesto si inserisce l’indagine condotta dal Centro Studi di Future Age, società specializzata in Change Management e digitalizzazione avanzata, che ha analizzato la situazione attraverso un questionario rivolto a oltre 2000 imprenditori in Lombardia, Emilia-Romagna, Veneto e Piemonte. L’obiettivo: individuare soluzioni concrete per accompagnare le aziende nella transizione organizzativa e tecnologica.
I DATI: VENETO IN PRIMA LINEA
Nel Veneto, lo studio ha coinvolto 565 imprese delle province di Verona, Vicenza e Treviso, con fatturati compresi tra 5 e 100 milioni di euro e operanti principalmente nei settori manifatturiero, meccanico, automazione, plastica, alimentare e servizi B2B.
Il dato più significativo riguarda il 36% degli imprenditori, che dichiara l’intenzione di vendere l’azienda entro i prossimi cinque anni. Le ragioni più comuni: mancanza di personale motivato e coinvolto (53%); inefficienze organizzative e problemi di processo (51%); ritardi nella digitalizzazione (32%); difficoltà nei passaggi generazionali (41%); e conflitti interni familiari o con collaboratori (27%).
Il segnale più preoccupante riguarda il crollo del capitale umano interno: oltre 7 imprenditori su 10 denunciano l’assenza di collaboratori con “voglia di fare” e senso di appartenenza. Nei commenti raccolti emergono spesso parole come “affidabilità”, “mancanza di sacrificio” e “disimpegno”.
Più della metà delle imprese analizzate si definisce lenta, disordinata o poco adattiva, con strutture incapaci di stare al passo con i cambiamenti di mercato. I principali colli di bottiglia individuati riguardano la scarsa integrazione tra reparti, l’assenza di controllo di gestione, processi decisionali ancora troppo centralizzati e una managerializzazione insufficiente.
Il 31% di chi valuta la vendita dell’impresa indica nella mancata trasformazione digitale uno dei fattori decisivi. In molti casi, infatti, la digitalizzazione risulta solo parziale, limitata alla contabilità o alla gestione documentale, mentre restano poco sviluppati ambiti come CRM, pianificazione avanzata, ERP internazionali, intelligenza artificiale e controllo delle performance.
Altro nodo critico è la successione generazionale: quasi un imprenditore su due non ha ancora individuato un successore. Le cause principali sono disinteresse dei figli, mancanza di competenze manageriali nei candidati, difficoltà a cedere il controllo e conflitti familiari. Inoltre, il 34% degli intervistati segnala di aver vissuto forti tensioni negli ultimi anni, legate a governance familiare, ristrutturazioni interne o divisioni tra soci.