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“A Schio Arcadia e Anpi non possono decidere chi sta in piazza”

RICEVIAMO e PUBBLICHIAMO. Leggo la testimonianza pubblicata sul vostro giornale dalla sedicente “resistenza scledense” e ritrovo, puntuale, la solita narrazione unilaterale: “antifascismo” usato come lasciapassare morale, Polizia dipinta come un problema anziché come l’unica presenza che evita il peggio, e un copione che a Schio tutti conoscono bene.  Visto che il quesito posto è: “Perché eravamo in piazza?”, la risposta dal mio punto di vista è fin troppo chiara: erano lì per ribadire il loro monopolio simbolico sulla piazza, per impedire che altri potessero manifestare, ricordare o semplicemente stare in uno spazio che considerano di loro proprietà ideologica. Non erano lì per difendere la democrazia, ma per presidiarne i confini secondo il loro metro, quello che divide il mondo in “giusti” e “sbagliati”. L’obiettivo? Impedire che qualunque iniziativa non allineata possa svolgersi senza intimidazioni, rumore, pressione e la consueta messa in scena antagonista.

A Schio, ormai, non si muove una foglia che Anpi o Arcadia non voglia. Basta provare a ricordare l’eccidio del 7 luglio. Anche la stampa lo sa bene, quando deve muovere i suoi passi sul loro campo minato. Ogni iniziativa non gradita viene subito scomunicata, con la presunzione di distribuire licenze di democrazia e di decidere chi può stare in piazza e chi no. Eppure, i fatti parlano chiaro: le provocazioni non arrivano dalle forze dell’ordine, che hanno garantito l’ordine pubblico, ma da chi continua a mascherare la retorica antagonista sotto la bandiera della Resistenza. Non è più credibile: si invoca la libertà e si pratica il controllo sociale, si predica pace e si cerca lo scontro. In questo quadro, il Ddl Sicurezza viene descritto in modo fuorviante. È dipinto come un mostro autoritario solo da chi teme che finalmente si dicano due verità semplici: chi protesta pacificamente è tutelato; chi cerca il caos non può pretendere l’impunità. E gli episodi di Schio lo dimostrano: se il decreto non serve a fermare chi attacca la Polizia, allora è necessario rafforzarlo ancora di più.

A chi oggi recita il ruolo di “resistente per vocazione” torna utile ricordare Pasolini, che nel 1968 — parlando degli scontri di Valle Giulia — ricordava una verità tanto scomoda allora quanto oggi: gli agenti di polizia sono figli del popolo, spesso provenienti da famiglie umili, mentre buona parte dei “rivoluzionari professionisti” proviene da contesti culturali e sociali ben più agiati (il prof. Cunegato docet). Pasolini denunciava l’ipocrisia di una certa borghesia che gioca a fare la rivoluzione sulle spalle di chi, invece, nello Stato ci lavora davvero Una riflessione che — volendo o meno — torna d’attualità: il contrasto tra chi veste la divisa e chi costruisce narrazioni antagoniste da posizioni sociali protette resta evidente.

L’uso distorto dell’antifascismo come arma politica è una diventata una caricatura poco divertente e priva di contenuti e valori.
E continuare a delegittimare sistematicamente le forze dell’ordine e chi le difende, con l’automatismo di accuse preconfezionate e false,  indebolisce uno Stato democratico e prepara il terreno a certe forme di autoritarismo a cui Anpi, Arcadia e chi per essi forse anelano ancora. Lo Stato  democratico è invece anti-autoritario, antifascista e quindi anche anticomunista, con buona pace dei profeti della nuova rivoluzione rossa, combattuta a caviale, champagne e maxi-velieri da regata (più comunemente detti yacht).

Massimo Malatesta

 

“Perché eravamo in piazza a Schio: una testimonianza antifascista”

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