Giocare al tiro al bersaglio è facile. Tutta un’altra storia è centrare quello giusto. Luigi Di Maio, mirando ancora una volta al cuore dei giornalisti italiani, ha perso l’ennesima occasione per andare a segno. Ignorando, o fingendo di farlo, che i colpevoli della mancanza di libertà di stampa – tra i presupposti costituzionalmente garantiti di una società colta, socialmente giusta ed emancipata – andrebbero ricercati in certa politica e in certi editori con essa collusi. Premettendo, in ogni caso, che non potrà mai essere !a critica all’inopportuna decisione di Virginia Raggi di promuovere a dirigente il fratello del proprio più stretto collaboratore il paradigma del cattivo giornalismo. Checché ne dicano i giudici.

Subito dopo dall’assoluzione della sindaca di Roma in primo grado, che a dispetto di quanto crede il vicepremier non è definitiva, pesanti quanto generiche sono state le considerazioni espresse sugli operatori della stampa: “Il peggio in questa vicenda lo hanno dato la stragrande maggioranza di quelli che si autodefiniscono ancora giornalisti, ma che sono solo degli infimi sciacalli, che ogni giorno per due anni, con le loro ridicole insinuazioni, hanno provato a convincere il Movimento a scaricare la Raggi”.

Parole tirate fuori a casaccio, quelle di Di Maio, nella totale ignoranza di quali siano le regole e le modalità di fare informazione. Soprattutto in una materia delicata come la cronaca giudiziaria. Non è un caso, del resto, che si sia celebrato un processo con l’imputazione di falso a carico della prima cittadina. Processo che non è stato imbastito ma raccontato dai giornalisti. Questo è il loro lavoro. Riportare i fatti, affidandosi alle fonti ufficiali o, comunque, attendibili. E se la nomina di Renato Marra alla direzione Turismo del Campidoglio ha scomodato un tribunale, le fonti in questione un qualche profilo di attendibilità avranno dovuto pure averlo.

D’altronde, il loro valore è identico a quello delle inchieste che, a ogni latitudine, hanno consentito al Movimento 5 stelle di sbaragliare la concorrenza dei partiti tradizionali. Perché, quindi, fare due pesi e due misure? Perché fare discriminazioni? Soprattutto, quali strumenti culturali possiede Di Maio per giudicare una professione che non gli è propria?

Se conoscesse le dinamiche del mondo dell’informazione saprebbe che la stessa campagna contro i contributi all’editoria, codificata nel contratto di governo come nel disegno di legge di bilancio, è un’ulteriore e gigantesca topica.  Quei contributi nascono, in teoria, proprio per favorire la costituzione di testate libere. Per aiutare i giornalisti a compiere il proprio lavoro in maniera oggettiva, senza dovere sottostare alla volontà di editori dediti unicamente a imporre i propri interessi di parte. Purtroppo, siccome a fare le leggi sono proprio gli editori, abbondantemente rappresentati in Parlamento sia a destra che a sinistra, ecco che simili finalità sono state lungamente mortificate. Come? Obbligando i giornalisti, per ottenere quei contributi, ad anticipare per anni soldi che mai avrebbero potuto avere senza il sostegno, guarda caso, degli stessi editori.

Che i pentastellati abbiamo colto o no l’inganno non si sa. Certo è che, piuttosto che modificare il meccanismo, hanno preferito colpire i lavoratori. Creando le premesse per generare ancora disoccupazione, senza minimamente incentivare quella libertà di stampa che, nel rapporto 2018 di Reporters sans frontières, vede l’Italia appena 46esima in classifica su 180 Paesi esaminati. E se il livello di libertà è così basso, è evidente che i giornalisti sono parte lesa. A meno che non fossero gli indigeni africani i colpevoli delle deportazioni nelle Americhe. O gli ebrei i fautori di quelle nei campi di sterminio nazisti.

Eppure, da anni il M5s li osteggia. Inventandosi leggende come quelle dei collaboratori a pezzo che sbagliano con premeditazione l’articolo per poter avere l’occasione di scrivere la rettifica, guadagnando il doppio. Castronerie, queste, che solamente chi non ha idea di come funzioni una redazione potrebbe escogitare prima ancora che raccontare.

La scarsa libertà di stampa nasce dalle altrettante scarse tutele sindacali, giuridiche e giudiziarie per i giornalisti, dalle remunerazioni sempre più da fame perorate da leggi scandalose come quella sull’equo compenso, dalla giungla legislativa che regola l’accesso alla professione e dalla connivenza delle istituzioni con chi la esercita abusivamente o, comunque, non ne rispettata i precetti deontologici. Tutti limiti, questi, che proprio un Governo e un Parlamento finalmente illuminati dovrebbero correggere. Arginando il potere di ricatto sui dipendenti da parte degli editori, loro sì apertamente di parte.

Ma non è questo il tempo di organi dello Stato così evoluti. Le parole di Di Maio non lasciano intravedere nulla se non che chi governa o è in mala fede, o non ha capito proprio nulla di come realmente stiano le cose.

di Fabio Bonasera per L’Eco del Sud

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