Il voto dell’Abruzzo anima tutti i dibattiti politici del momento. Vince Salvini, Salvini vince, dov’è Salvini? Come in un mirabolante gioco politico delle tre carte, il Capitano camaleontico non si fa trovare, è la carta che sfugge, ma che ad oggi vince sempre.

Lui è ovunque. Nella compagine delle regioni vincenti col centrodestra al comando e la Lega quasi sempre azionista di maggioranza. Nella squadra di governo, vicepremier e istrionico comunicatore “tuttosù” dell’azione di governo. Oppositore reciprocamente opposto, interno/esterno alla maggioranza coi Cinquestelle, che guida il paese.

Il mastice era e rimane il contratto di governo. Vince la Lega in un Abruzzo dove prima la Lega non esisteva. Sdoganata ufficialmente a forza politica nazionale e dai sondaggi alla realtà partito di maggioranza relativa nel paese. L’impressione verosimile è che ancora la presenza in questo accordo contrattuale e di governo, più sentimentale che politico, fra Luigi e Matteo serva e tanto ad entrambe e che durerà per la legislatura, nonostante l’Abruzzo e le innumerevoli divergenze interne di oggi e di domani. La ragione è che il palcoscenico offerto a Salvini dalla scena e dai pulpiti dei media nazionali è troppo ghiotta. Da qui la Lega, alleatasi col 17% dei consensi ad una forza politica che l’aveva doppiata il 4 marzo, ha usato comunicativamente il governo come un enorme timpano che fa risuonare all’inizio una mazza modesta che col tempo ha prodotto e amplificato un imponente suono. Con un volume in costante aumento.

La cassa di risonanza governativa non è stata l’unica utilità per la Lega salviniana, ben lontana da quella Lega Nord, che non esiste più. Ha giocato un ruolo chiave anche la possibilità di fare da “cavallo di Troia” sui provvedimenti, non di rado calmierando il potenziale rivoluzionario movimentista, convertendolo spesso ai più miti consigli di far rimanere il cambiamento nei più moderati confini riformistici piuttosto che lanciare enormi sassi rivoluzionari gettati nello stagno populista, in grado di provocare imprevedibili e spaventevoli tsunami per un elettorato, soprattutto leghista e in prospettiva di centrodestra, comunque ancora tanto moderato e conservatore.

E’ così che Salvini vince dappertutto. E’ garanzia conservatrice dentro ad un governo altrimenti senza freni riformistici e rivoluzionari se fosse a prevalenza movimentista e nelle tornate amministrative locali più facilmente ritorna partito di sistema rassicurante, più conservatore che reazionario, talmente da potere assorbire i voti di una Forza Italia ormai ingessata e tirata, quasi mummificata nel suo immobilismo organizzativo e di idee, forse più del suo capo storico.

La sinistra continua a mostrare i suoi limiti. E’ costretta a nascondersi per tenere botta. Non compare come dovrebbe con l’unico simbolo del Pd, ancora perdente ed idiosincratico presso gli elettori, ma si attornia di un numero di liste civiche utili a racimolare voti per galleggiare. In tutto questo scongiurando una “debacle”, impresa che, per paradosso, ha il vago gusto di un pareggio fuori casa (il calcio come metafora del tutto). In casa dem si aspetta sempre Godot, con la pazienza di Giobbe da parte di tutti (elettori affezionati al concetto e iscritti). Un anno dopo la sconfitta elettorale si va a congresso e si prova timidamente ad eleggere un segretario. Si riprova l’onanistico tentativo di fare passare per nuovo il vecchio e viceversa, con un Martina candidato alla segreteria e già ministro di Renzi che già fa intravedere liste precotte per le europee con tanti…renziani. Oppure propone un presidente di regione con già tanta acqua passata sotto il suo ponte, Zingaretti, come la fresca aria del mattino che apre cuore e polmoni dopo le buie stanze dei gigli magici e delle sconfitte senza padroni.

E i Cinquestelle? Da quelle parti manca la linea. Non le linee ma’ La linea’. Non vengono date risposte univoche su temi dirimenti e sono questi anche i limiti della post-ideologia. Che è servita a prendere voti ovunque, ma che finora non ha dato identità. L’azione di governo è sotto traccia, ma c’è corposa, sotto la cenere di un fuoco amministrato in modo sfavillante e senza una ragione comprensibile solo dall’altro socio di maggioranza, Salvini.

Si scontano errori nella comunicazione. Non si presenzia sui media con i più anziani e preparati alla battaglia comunicativa mentre si espongono giovani di belle speranze che si faranno. Ma la pregnanza sui provvedimenti ne perde, facendo apparire impreparati, incerti e ondivaghi. Si sono prese posizioni legittime di politica estera senza la necessaria diplomazia e furbizia, esponendosi oltremisura. Si sono propagandati male i provvedimenti giusti mentre si continua a dare rilievo ad un’etica stantia (restitution day, tagli della politica, tagli dei parlamentari, tagli…) che la gente ormai, per quanto apprezza, non ritiene risolutiva di problemi concreti e reali, leggendo nettamente il tutto come pedante propaganda.

Per fortuna c’è Conte che inaspettatamente ha guadagnato un ruolo istituzionale quasi da statista, nonostante tutto il vento contrario e la grande ombra di un Salvini al quale, immotivatamente e col doppio dei voti ottenuti, è stato discretamente e masochisticamente consegnato lo scettro del potere. Forse pagano questa arrendevolezza di fondo che di fatto ha avuto il gusto di un tacito riconoscimento: o di un pavido eccesso di modestia o di una classe dirigente ancora in formazione, non del tutto pronta alla gestione dei dossier governativi. Ma, se il governo dura, ci sono buone possibilità che imparino velocemente, come oggettivamente fecero da sperdute animelle nel Parlamento e nelle Commissioni nel 2013 passando da opposizione energica a movimento in grado poi di vincere le elezioni cinque anni dopo.

Giuseppe Scarcella

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