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Thiene. Kolver alla conquista dell’America con lo stile californiano di Raffaello Colasante

di Federico Piazza

Quello di Kolver e della famiglia Colasante è un caso piuttosto peculiare di ricambio generazionale in corso alla guida di una PMI dell’Alto Vicentino.

Gli ingegneri Raffaello ed Edoardo Colasante sono figli di Giovanni Colasante, imprenditore thienese che nel 1989 ha fondato Kolver, azienda specializzata nella progettazione e produzione di avvitatori elettrici industriali esportati per l’80% in Europa, Nord America e Asia. E sono anche nipoti da parte materna di un vicentino di grande lustro nel campo delle tecnologie digitali, in particolare dei micro processori: Federico Faggin, fisico, inventore e imprenditore della Silicon Valley californiana, dove vive dagli anni ’60.

Entrambi i fratelli Colasante lavorano con ruoli dirigenziali in Kolver, che nel corso degli anni si è fatta un nome di primo piano a livello internazionale in un comparto di nicchia come quello degli avvitatori elettrici.

Raffaello in Italia è l’amministratore delegato e si occupa dello sviluppo strategico dei prodotti. Edoardo negli Stati Uniti è il direttore tecnico e il responsabile commerciale per la West Coast. Entrambi hanno deciso di occuparsi dell’azienda di famiglia dopo anni di studio e di esperienza manageriale in tutt’altro ambito in California. Raffaello nell’hi-tech del software digitale, Edoardo nell’alimentare per la “carne vegetale”. Mondi molto lontani da quello delle tecnologie industriali fiore all’occhiello dell’elettromeccanica vicentina, veneta e italiana, in cui invece opera Kolver.

Raffaello Colasante, intervistato da AltoVicentinOnline, parla della sua esperienza nell’industria digitale californiana, del grande valore della formazione matematica teorica di base acquisita al Liceo Scientifico Corradini di Thiene, dell’approccio molto pratico e orientato al business dell’università americana, del presente e del futuro di nuovo in Veneto alla guida della piccola azienda di famiglia che proprio in Nord America, specialmente negli Stati Uniti, ha visto negli ultimi anni il mercato crescere di più, soprattutto per i prodotti di alta gamma a maggior valore aggiunto. E inevitabilmente, parla dell’importanza dell’innovazione tecnologica per restare competitivi e dell’incognita degli effetti che le crescenti barriere commerciali internazionali potrebbero avere su investimenti industriali ed export.

 

Il 40enne Raffaello Colasante ritorna a Thiene dopo oltre vent’anni di università e di carriera manageriale ad alto livello negli Stati Uniti. Perché?

«Professionalmente, avevo voglia di tornare in un contesto aziendale piccolo, dove ci si conosce tutti e come manager posso dedicare a ciascuno la giusta attenzione. Kolver è perfetta per me, perché siamo in trenta nella sede di Thiene e in quindici in quella statunitense nel New Hampshire. Inoltre, desideravo far crescere in Italia i miei quattro figli che oggi hanno dai due agli otto anni. Vicino ai nonni, e con un’impronta scolastica italiana, che sulle basi teoriche è più rigorosa di quella americana».

Quindi meglio la scuola e l’università italiane?

«L’istruzione statunitense ha un orientamento più pratico. Per esempio, nei diversi campi dell’ingegneria applicata che a me piace molto. Inoltre prepara meglio in ambito business, porta maggiormente a mettersi in gioco e ad avere più propensione al rischio d’impresa. Ma sottolineo che tanto del successo lavorativo che ho avuto negli Stati Uniti lo devo all’istruzione del Corradini di Thiene. L’ottima preparazione matematica liceale mi ha aiutato molto nel mio percorso universitario in America. Anche mia moglie statunitense ha avuto un’impronta formativa europea, avendo frequentato scuole francesi. Ed è stata molto felice della scelta di trasferirci in Italia».

Ripercorriamo le principali tappe di studio e lavoro in America?

«Nel 2000, quando avevo 17 anni, dopo i primi tre anni al Corradini mio zio Federico Faggin, cognato di mia madre, mi invitò a trascorrere l’estate a casa sua, vicino a San Francisco in California, per una vacanza studio. Ci rimasi per fare la quarta superiore presso la Sacred Heart Prep High School di Atherton, nella Silicon Valley. Dopodiché mi sono laureato e ho fatto un master in ingegneria informatica alla UC Santa Barbara dell’Università della California, nella zona di Los Angeles. E a Santa Barbara sono rimasto, lavorando nel settore delle tecnologie digitali e facendomi una famiglia, fino al rientro in Italia a fine 2023».

Qual è stata la prima esperienza lavorativa nell’hi-tech digitale californiano?

«GoToMeeting, videoconferenze web. L’azienda era stata fondata da due dottorandi di ricerca della UC Santa Barbara, che l’avevano avviata con la multinazionale informatica Cendrix. Quindi prima esperienza in una realtà strutturata, come mi avevano consigliato i professori dell’università. Nel giro di due anni sono stato messo a capo del progetto di sviluppo di un software per il Mac di Apple, che stava tornando in voga dopo essere stato un prodotto di nicchia per grafici. E successivamente anche per l’iPhone, uscito proprio in quegli anni, che aveva gli stessi frame di sviluppo del Mac. Mi ero infatti fatto notare sviluppando la prima app per iPhone di un sito web specializzato in previsioni meteo per il surf, di cui sono appassionato».

E poi?

«Mi dimisi da GoToMeeting per provare a fare con altri una startup, Interactive Touch Inc, il cui prodotto era un software che permetteva a scrittori e illustratori di creare libri interattivi per bambini fruibili sull’iPad anche se non avevano competenze di programmazione di codici informatici. Era però troppo presto per quest’idea. Avevamo avuto degli investitori privati nel capitale della startup, i cosiddetti angel investor, e raggiunto 80mila utenti mensili. Ma per fare un fatturato adeguato avremmo dovuto acquisire un numero di clienti dieci volte superiore. E così dopo due anni abbandonammo il progetto, in cui avevamo investito nostri fondi oltre che ad aver rinunciato a un salario da ingegneri a livello manageriale altrove, che in California è alto. È stata comunque un’esperienza molto utile, anche perché nella cultura business statunitense il fallimento non è considerato una colpa».

Tappa successiva?

«Procore Technologies Inc. Quando ci entrai nel 2013 era una startup di software per la gestione di cantieri edili con sei persone e un milione di dollari di ricavi. Oggi è quotata in borsa e fattura più di un miliardo di dollari. Quando lasciai nel 2020 eravamo in 2700 persone. Ero a capo del team di sviluppo del software su piattaforme mobili che abilita l’utilizzo diretto in cantiere con un budget importante per assumere principalmente ingegneri laureandi e neolaureati. Il fatturato raddoppiava ogni anno. E aumentavano gli investitori privati e istituzionali, anche perché erano anni in cui c’erano ingenti capitali finanziari disponibili a tassi di interesse molto bassi. Gli ultimi anni nell’executive team di Procore dirigevo tutta la parte di interfaccia relativa alla visual experience. Ma alla fine ho lasciato perché a me piace la parte iniziale dello sviluppo del business, quando l’azienda è ancora piccola. Per il tipo di gestione manageriale che faccio io, mi trovo bene finché si rimane entro le 200-300 persone. Quindi per qualche anno negli Stati Uniti ho fatto il consulente aziendale».

E quando è riapparsa l’azienda di casa Kolver nella vita professionale di Raffaello Colasante?

«Avevo dato una mano nell’operazione di acquisizione nel 2015 del distributore statunitense con sede in New Hampshire, cioè dalla parte opposta degli Stati Uniti nella East Coast. Kolver vendeva nel mercato americano già dal 2002. Le prospettive di crescita erano interessanti, a patto di fare prodotti di altissima

precisione e a controllo elettronico, come chiedevano i clienti americani. Essendo un ingegnere informatico software designer con anni di esperienza in visual experience, sono stato ben felice di disegnare un’interfaccia utente molto intuitiva per gli avvitatori di fascia alta. Con lo sviluppo di un prodotto con centralina basata su un software che produciamo internamente siamo quindi entrati nel mio mondo».

Chi sono i clienti americani di Kolver?

Si va dall’aerospaziale, con l’azienda SpaceX di Elon Musk che utilizza i nostri avvitatori elettrici per le micro viti che fissano componenti dei razzi, all’elettronica con forniture per le fabbriche asiatiche di Apple. Ma anche l’elettro medicale, le pistole prodotte nella fabbrica americana di Glock, diversi tipi di componentistica della filiera auto come batterie, fanali, cruscotti e sedili. Il Nord America rappresenta oggi un terzo delle nostre esportazioni, e apriremo una sede anche in Messico. Gli Stati Uniti sono il mercato a maggior valore aggiunto».

Con i dazi di Trump temete un contraccolpo negativo sull’export e andrete a produrre negli Usa?

«Continueremo a produrre in Italia. Ma probabilmente distingueremo meglio a livello tecnico-merceologico la componente software, che oggi non è sottoposta a dazi. Sinora si è creata soprattutto incertezza rispetto ai piani di investimento in beni strumentali industriali delle aziende. E infatti in questi mesi molti progetti sono stati rallentati. Nel nostro settore i dazi Usa sinora applicati alle merci Ue erano del 2-3%. Ora, con la proroga di tre mesi rispetto all’annuncio del 20% di inizio aprile, siamo saliti al 10%. Livello comunque assorbibile dal mercato americano».

E la concorrenza negli Stati Uniti?

«Dazi più alti favorirebbero i nostri concorrenti con impianti produttivi negli Usa, che comunque sono pochi. La maggior parte degli avvitatori elettrici sono infatti realizzati in Europa e in Asia. Noi come Kolver possiamo comunque contare sul fatto di avere il prodotto di fascia alta che i clienti americani cercano. Essenziale per un’azienda è investire in innovazione tecnologica per restare davanti ai concorrenti, ovunque essi siano. Per ora siamo soddisfatti: nel 2024 il fatturato complessivo è aumentato del 10-15% rispetto ai 13,5 milioni di euro del 2023, con marginalità ebitda oltre il 40%.

Bene anche per i vostri dipendenti quindi?

«Abbiamo un turn-over bassissimo, la maggior parte di chi lavora con noi resta con noi. In Kolver diamo molta autonomia ai collaboratori. Secondo me infatti è assurdo assumere persone intelligenti e intraprendenti, per poi fare micro management. Bisogna lasciare che le persone tirino fuori le loro idee, facciano errori, imparino da essi. Che è stato un po’ il segreto del mio successo in Procore negli Usa. Abbiamo un buon welfare aziendale, che tiene conto anche delle esigenze di conciliazione dei tempi casa-lavoro. Ed economicamente, con l’accordo di secondo livello del contratto di lavoro riconosciamo a tutti i dipendenti premi aziendali di produttività che incrementano di almeno il 30% il netto in busta paga. Preciso inoltre, per sottolineare l’ottimo livello dell’istruzione italiana, che quasi tutti i nostri addetti di produzione sono periti elettronici dell’Itis Chilesotti di Thiene, eccellente scuola con cui collaboriamo da più di vent’anni per ospitare ragazzi in alternanza scuola-lavoro. Abbiamo ovviamente anche ingegneri in progettazione e da maggio ospiteremo per 400 ore in due anni una studentessa ITS di economia internazionale».

State investendo a Thiene?

«Ci siamo spostati da un anno in una nuova sede in zona industriale progettata per essere a basso impatto ambientale, con pompe di calore e auto produzione di elettricità da impianto fotovoltaico».

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