Dove finisce una ricetta e dove comincia un’identità? È una domanda antica, ma torna improvvisamente attuale dopo il riconoscimento della cucina italiana come Patrimonio Culturale Immateriale dell’Umanità UNESCO, quando dall’Alto Adige si alza una voce stonata – e volutamente provocatoria: “I canederli non sono italiani”. Una frase breve, netta, apparentemente gastronomica. In realtà profondamente politica, culturale, simbolica. La polemica nasce da una presa di posizione di parte della stampa altoatesina di lingua tedesca, che rivendica l’origine mitteleuropea dei canederli (Knödel) e ne rifiuta l’inclusione nel perimetro della cucina italiana celebrata dall’UNESCO. Il messaggio è chiaro: quel piatto non ci rappresenta. Non è “nostro”. Non è italiano. Ma qui sta l’equivoco – o forse la strategia comunicativa: l’UNESCO non ha premiato un ricettario, né ha stilato una lista di piatti ammessi o esclusi. Ha riconosciuto un sistema culturale, un insieme di pratiche, rituali, gesti quotidiani, saperi tramandati e convivialità. Ha premiato una cucina viva, non un museo.I canederli nascono come piatto di recupero, pane raffermo, latte, uova, quello che c’è. Sono figli della montagna, della necessità, della parsimonia contadina. Sono alpini, certo. Ma le Alpi non sono un confine culturale netto: sono una zona di passaggio, di scambio, di stratificazione.
Il Trentino-Alto Adige è Italia dal 1919, ma la sua cucina è molto più antica dello Stato-nazione. Ed è proprio questo il punto che molti sembrano dimenticare: l’italianità gastronomica non coincide con l’italianità linguistica o politica. La cucina italiana è fatta anche di contaminazioni, di minoranze, di territori di confine. È fatta di influenze arabe in Sicilia, austro-ungariche al Nord, francesi in Piemonte. Negare questa complessità significa semplificare, impoverire, tradire la verità storica del cibo. Rivendicare l’identità non dovrebbe mai significare cancellare l’appartenenza. Dire che i canederli sono solo mitteleuropei è una forzatura tanto quanto dire che sono solo italiani. Sono entrambe letture ideologiche. La verità, più scomoda ma più onesta, è che i canederli sono esattamente ciò che l’Italia è: un Paese plurale, stratificato, fatto di territori che non chiedono di essere omologati, ma riconosciuti. Il riconoscimento UNESCO non italianizza i canederli, non li sottrae alla loro storia germanofona, non li trasforma in un vessillo nazionalista. Li inserisce, semmai, in un racconto più ampio: quello di una cucina che vive nei territori, non nelle bandiere. E se un piatto è cucinato, tramandato, vissuto quotidianamente da generazioni di cittadini italiani, allora fa parte – piaccia o no – del patrimonio culturale italiano. Anche se parla più lingue. Anche se ha più nomi. Anche se non sta comodo a tutti. Chi lavora seriamente nel mondo dell’enogastronomia lo sa: il cibo è memoria, identità, potere simbolico. Ogni polemica culinaria è sempre qualcos’altro travestito da ricetta. E allora ben venga il dibattito, se serve a ricordarci che la cucina italiana non è un monolite, ma un organismo vivo, fatto di differenze che convivono. Molto peggio sarebbe ridurla a una cartolina rassicurante, pulita, semplificata. Senza attriti. Senza storia. Perché una cucina senza conflitto è una cucina senza anima. E i canederli, nel bene e nel male, un’anima ce l’hanno eccome.