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Falcone e la lezione di legalità: è morto invano?

di Rosa Natalia Bandiera

‘Ma chi te lo fa fare?’…’Fai finta di niente che vivi meglio’…’Chi ha chiamato le forze dell’ordine per denunciare quell’assembramento, quel caso di abusivismo o di mancato rispetto delle regole è un infame, è uno che doveva farsi i ca..i suoi’.

E ancora, insulti alle forze dell’ordine, alle figure istituzionali, al Presidente della Repubblica. L’avvertimento dei miei collaboratori, di uno in particolare che oltre a stimarmi professionalmente, sente di proteggermi come una sorella ricordandomi che ‘sono in Veneto e qui è tutto tranquillo, la gente vuole lavorare e non avere rogne e chi è come me, una rompiballe, è considerato una specie di estremista, che rischia grosso’, la dice lunga.  Sono piccole cose con cui convivo ogni giorno, dopo il mio trasferimento dalla Sicilia, circa 15 anni fa. Sicilia, terra malata e incivile per colpa di classi politiche conniventi con la mafia che più che pensare al bene del territorio e dei cittadini, hanno pensato per decenni a coltivare gli affari di chi comanda. Terra però, di denuncia e di coraggio, anche di potere scrivere che la politica è andata a braccetto con Cosa Nostra e ancora oggi lo fa, in molte zone. Isola malata di cancro, ma con la libertà ed un fermento culturale, che fa scendere in piazza chiunque, quando c’è qualcosa che non va. Ce lo hanno insegnato i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, che forse non hanno sconfitto del tutto la mafia, ma hanno fatto crescere un seme di intellettualità, per cui vale la pena morire. Giovanni Falcone è stato ucciso 30 anni fa e non è passato un solo anno, che io, soffermandomi sul suo anniversario di morte, non mi sia chiesta se è valso la pena farsi saltare in aria per quel seme, che in Sicilia ha generato l’albero della legalità.

Oggi vivo in Veneto ed ero convinta, quando risiedevo e lavoravo nel meridione bistrattato, che nel ricco Nord Est il concetto di mafia non ci fosse: al contrario invece lo scopro, lo leggo, lo percepisco e impregna la mia vita, anche professionale, di tutti i giorni. Perchè quello che mi hanno lasciato Falcone e Borsellino, tutti i magistrati ammazzati da chi voleva delinquere, assieme a giovani appartenenti alle forze dell’ordine che per un milione e mezzo delle vecchie lire al mese si sono sacrificati perchè credevano nello Stato, va ben oltre quell’idea di mafia associata ignorantemente all’uomo scuro di carnagione con la coppola in testa, la lupara e l’istinto di uccidere chi gli fa un torto o ostacola i suoi disegni criminali.

Vivere e lavorare in Sicilia negli anni post stragi di mafia ha significato per me cambiare mentalità e imparare a non voltarsi indietro neanche davanti a quel piccolo reato che sembra inutile reprimere o prevenire. Il messaggio che ci hanno lasciato questi due eroi, a cui qualche collaboratore di giustizia aveva detto chiaro che se non si fossero fermati sarebbero finiti in una bara, va ben oltre quell’anacronistico concetto di mafia che c’è nel Nord Italia. Combattere la mafia, dicevano Falcone e Borsellino, nelle scuole dove incontravano per ore le nuove generazioni che ora sono diverse grazie alla forza delle loro parole, significa avere il coraggio della denuncia e non avere mai paura di farlo anche se vai a toccare chi può scagliarsi contro di te. Mafia non sono solo le cosche che fanno branco per accrescere il loro potere, ma possono essere anche un gruppo di persone che pur avendo la fedina penale immacolata, si riuniscono attorno ad un tavolo per decidere un’opera pubblica della quale non c’è bisogno e che serve solo ad arricchire un altro gruppo di potere. Magari portatore di voti. Mafia è illegalità. Illegalità è quando a capo di una partecipata non ci metti un professionista competente in materia, ma un politico che appartiene al partito, che ha deciso di gestirla per i suoi affari, che spesso non coincidono con quelli della collettività. Illegalità è quando vai dal sindaco del paese per farti riparare la buca davanti casa come favore personale, quando ci sarebbero delle priorità che riguardano fasce deboli che non hanno voce. Illegalità è quando attacchi uno Stato, che ti detta delle regole e tu le trasgredisci solo perchè non le condividi. Illegalità è quando evadi le tasse, è quando dinanzi ad un’ingiustizia, preferisci girarti dall’altra parte per non avere ‘rogne’ e non passare un paio d’ore in caserma dai Carabinieri per ufficializzare il verbale. Perchè illegalità non è solo commettere un reato o trasgredire una regola, ma è anche favorirne la ripetizione con il tuo atteggiamento di omertà. Fare finta di niente davanti all’ingiustizia.

I movimenti antimafia contro il pizzo sono nati proprio da questa ribellione, che ha generato un pensiero culturale che va ben oltre il racket delle estorsioni. ‘Io non ti pago il pizzo perchè non ho bisogno della protezione di un mafioso, io devo essere protetto dallo Stato’. La cultura antimafia ha fatto capire alle vittime del racket, che se continuavi a pagare l’estorsione diventavi complice del tuo estorsore. Si è partiti da questo concetto per infliggere il colpo mortale alla mafia che gestiva il racket. Ma questo concetto è applicabile nelle piccole azioni quotidiane di tutti noi. Ogni volta che siamo davanti ad una trasgressione delle regole imposte dallo Stato, ogni volta che assistiamo ad un’ingiustizia, ogni volta che qualcuno riceve un sopruso non dobbiamo voltarci dall’altra parte perchè alimentiamo, come fertilizzante nelle piante, l’ingiustizia. Facciamo crescere il seme dell’illegalità, del malaffare, che se la fa franca grazie ai nostri silenzi e alla nostra indifferenza, crescerà esponenzialmente dando cattivi frutti, quelli che fanno germogliare la mafia.

 

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