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Il Covid uccide una volta sola, la giustizia 2 volte

di Patrizia Vita

Ci preoccupiamo tanto di un virus che può uccidere, o anche no, mentre invece dovremmo farlo anche di più per una Giustizia ‘strana’, incomprensibile. Una giustizia che, come il virus, può colpire ciascuno di noi, da vittime o imputati, contro la quale non si sta predisponendo alcun vaccino.

Già, perché ci sono sentenze che non soddisfano le aspettative del cittadino, soprattutto delle persone offese; perché ci sono scappatoie giuridiche che consentono a un assassino di uscire dopo soli 9 anni per buona condotta. E’ il caso Parolisi, quel marito che nel 2011 uccise la moglie, Melania Rea, con 35 coltellate e condannato definitivamente a 20 anni di reclusione, già da questo mese potrà godere della semilibertà.

Ma se il delitto Rea mostra evidente la discordia tra giudici di 3 differenti gradi di giudizio – per Parolisi fu ergastolo in primo grado, 30 anni in Appello, e 20 in Cassazione – da ieri un altro caso mostra l’incongruenza senza confini di una giustizia che appare sempre più ‘discrezionale’.

La Corte di Appello di Firenze, ribaltando il primo grado, ha assolto “perché il fatto non sussiste” Alessandro Albertoni e Luca Vanneschi, imputati di tentata violenza sessuale di gruppo nel processo per la morte di Martina Rossi, la studentessa 23enne deceduta il 3 agosto 2011 precipitando dalla finestra di un hotel, dove era in vacanza a Palma di Maiorca. Secondo l’accusa la ragazza stava sfuggendo dal tentativo di stupro nei suoi confronti da parte dei due giovani.

Il 14 dicembre 2018, il tribunale di Arezzo aveva condannato i due imputati a 6 anni per tentata violenza sessuale e morte in conseguenza di altro reato. Ma nel frattempo questo secondo reato è stato dichiarato prescritto, e in Appello Albertoni e Vanneschi sono accusati della sola tentata violenza, per la quale il Pg chiede 3 anni: reati dimezzati uguale a richiesta di condanna dimezzata.

Ma ai due imputati va ancora meglio: assolti perché il fatto non sussiste. E se questo, genericamente, può apparire logico perché rientra nelle opportunità offerte dal sistema giudiziario italiano, nel leggere la storia di Martina Rossi, il ribaltamento della sentenza di secondo grado non convince.

Abbiamo Martina in vacanza, in quell’estate del 2011, in un albergo di Maiorca con due amiche studentesse, genovesi come lei. In quello stesso albergo alloggiano anche 4 ragazzi aretini. Fanno amicizia. La notte del 3 agosto, le amiche di Martina vanno nella camera a tre che condividono tra loro, con due dei ragazzi, lei si reca nella camera 603, al 6° piano di quell’hotel delle Baleari, in compagnia di Alessandro Albertoni e Luca Vanneschi. Poi, quella stessa notte, Martina vola giù dalla finestra della 603.

L’ipotesi più accreditata per quella morte è suicidio. Sarà l’esposto presentato alla procura di Genova dai genitori di Martina, che non credono al suicidio della figlia, a determinare un approfondimento indagini. Per competenza territoriale è la procura di Arezzo a portare avanti l’inchiesta. Vengono sentiti i ragazzi e le ragazze che hanno condiviso la vacanza con la vittima. Le amiche di Martina, Isabella e Alessia, raccontano che quella sera con Martina tornarono in albergo all’alba, dopo una serata trascorsa in discoteca, insieme ai quattro ragazzi di Arezzo. Due di questi si appartarono con loro due, mentre Albertoni e Vanneschi si recarono nella 603, dove subito dopo li raggiunse Martina, per non essere d’impiccio alle amiche.

Il racconto di Albertoni

Qui, racconterà Albertoni agli inquirenti, la vittima, che come gli altri ragazzi si era nel frattempo addormentata, a un certo punto si sveglia di soprassalto, gridando “sei un assassino, mi vuoi uccidere”, lo graffia sul collo e si lancia dalla finestra. Perché lo fa? Il possibile incubo del quale si intenderebbe fosse preda non giustifica il lancio nel vuoto. Era drogata o ubriaca? Nemmeno: l’autopsia escluderà qualsiasi uso di droghe o abuso di alcol. Cosa, dunque, ha spinto Martina a volare dall’alto di 6 piani?

Per la famiglia Rossi non ci sono dubbi: Martina volò giù per sottrarsi al tentativo di violenza sessuale da parte di Albertoni e Vanneschi. Di più, il legale che rappresenta la famiglia della vittima attribuisce a quel graffio sul collo di Albertoni il tentativo di difesa dalla violenza sessuale da parte di Martina, divenuto estremo nel lanciarsi nel vuoto per sfuggire ai due.

Ma basterà all’accusa questa ipotetica ricostruzione della fasi di quella tragedia? Non sarebbe bastato se nel corso della convocazione al Tribunale, per essere sentiti come persone informate sui fatti, dunque non ancora sospettati, 6 mesi dopo, la conversazione tra i due amici, avvenuta prima dell’incontro con il magistrato inquirente, non fosse stata intercettata.

Albertoni, ignorando che le voci sono registrate, tranquillizza l’amico Vanneschi sul fatto che “non ci sono prove sulla violenza sessuale”. Ma sino a quel momento non si era mai parlato di quel reato.

I due vengono così accusati di tentata violenza sessuale, omicidio colposo, morte come conseguenza di altro reato e omissione di soccorso.

E in primo grado, per loro, arriva la condanna a 6 anni per il primo e il terzo dei reati contestati. Come detto, però, per il secondo grado cade per prescrizione quello di ‘morte come conseguenza di altro reato’. Il primo, rimasto, non regge davanti ai giudici d’Appello: assolti perché il fatto non sussiste. Resta dunque una sola spiegazione: la ragazza si è volontariamente uccisa.

Ma si saranno chiesti, i giudici, perché mai una ragazza di 23 anni, in vacanza con le amiche, dunque si suppone in uno stato d’animo sereno, abbia deciso di lanciarsi dal sesto piano? Ed ancora perché quel graffio sul collo di uno degli imputati, o quel dialogo intercettato tra Albertoni e Vanneschi? Niente da fare, per assurdo regge davvero la ricostruzione di una Martina che si desta delirante da un incubo e graffia l’amico aretino. L’intercettazione, poi, non pesa sulla decisione dei giudici. Neanche il beneficio del dubbio per quella giustizia ‘discrezionale’ che abbonda in Italia. Neanche sfiora le menti di chi giudica l’idea di aprire un’istruttoria dibattimentale, assolvono.

Adesso, tra dolore e sdegno per una sentenza che non appaga i genitori di Martina, ma neanche l’opinione pubblica, si attenderà la decisione della Cassazione, cui già la famiglia ha detto che farà ricorso.

Melania Rea, Martina Russo, morte nello stesso anno, il 2011. Nove anni dopo, per l’assassino della prima, per i presunti responsabile della morte della seconda… “Giustizia non è stata fatta”. Sarà retorica dire che sono morte 2 volte, ma così è.

No, non dobbiamo preoccuparci solo di un virus, in questo paese.

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