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La storia insegna: i soldi non bastano per uscire dalla povertà

Gli interventi finanziari, da soli, non sono efficaci per uscire dalla povertà. Soprattutto in un paese (l’Italia) in cui una pensione su 2 è garantita dallo Stato e non è a fronte di contributi versati.

E’ l’analisi del ‘dato Italia’, paese con più assistiti che assistenti, dove si parla di Reddito di Cittadinanza e non si capisce se questo reddito si affianchi o si sostituisca alle già numerose misure di tutela garantite dallo Stato.

Nel dibattito che da mesi inonda il Paese sul reddito di cittadinanza, è sfuggito un dato molto interessante: leggendo con occhio attento i difficili bilanci Inps, in Italia, già oggi, vengono spesi oltre 107 miliardi di euro per l’assistenza.

In Italia 854mila assegni sociali (457 euro mensili)  vengono erogati dall’Inps a persone con più di 65 anni, senza redditi propri, incidono per 4,71 miliardi, mentre i 3 milioni di pensioni integrate al minimo (508 euro mensili), in costante riduzione negli ultimi anni, costano 8,83 miliardi. Si tratta di pensioni ‘assistite’, cioè non coperte da contributi sufficienti che lo Stato integra, ancora dagli anni 70, per arrivare al minimo pensionistico.

A 473mila persone, con pensioni basse, l’Inps garantisce la 14esima  mensilità per sostenere il reddito stanziando quasi 900 milioni.

La stessa non autosufficienza viene giustamente tutelata con pensione di invalidità civile (o di lavoro) spesso rafforzata, nei casi molto gravi, dall’assegno di accompagnamento: 2 milioni e mezzo di persone percepiscono questi sussidi (che stanno aumentando per il crescente invecchiamento della popolazione), per un onere complessivo che tocca i 17 miliardi e mezzo. Una pensione su due quindi, in Italia, è sostanzialmente assistita dallo Stato per contrastare il rischio povertà.

La novità più rilevante è stata l’introduzione, dopo il Sostegno di Inclusione Attiva del 2015, del Reddito di Inclusione (2 miliardi di euro nel 2018) che prevede, pur con dei paletti normativi molto rigidi, un percorso di inclusione sociale, fatto di servizi e di sussidi (da un minimo di 187 fino ad un massimo di 540  euro mensili) per una platea di persone povere.

E nel delicato ambito del sostegno al reddito a chi ha perso, temporaneamente o definitivamente il lavoro, dalla Cassa Integrazione ordinaria e straordinaria (ed ai relativi contributi figurativi), al Naspi (assegno di disoccupazione), a chi è in malattia, al fondo di garanzia per il trattamento di fine rapporto, sono ben 29 i miliardi stanziati. Si apre quindi il vero tema delle risorse dedicate alla promozione, alla tutela ed alla riconversione del lavoro quando questo manca.

Nel 2015 (ultimo anno disponibile Istat) i Comuni italiani hanno speso per povertà, disagio e adulti senza fissa dimora, il 7%, cioè 483 milioni,  dei quasi 7 miliardi di euro dedicati alla spesa sociale. Ad essi si devono aggiungere i 465 milioni di euro utilizzati per l’integrazione delle rette di anziani ospiti di strutture protette.

In uno scenario così complesso, è arrivato il momento di riordinare tutta la spesa assistenziale oggi così frammentata e non sempre ben distribuita (una Commissione parlamentare, al massimo livello, con 6 mesi di tempo potrebbe farlo). Esiste infatti una povertà ‘strutturale’ legata a patologie stabili che impediscono il lavoro e l’autonomia economica o al degrado culturale e sociale molto difficile da aggredire e destinata ad essere ‘assistita’ per tutta la vita. Ed esiste una povertà ‘temporanea’, legata a scarsità di reddito per assenza o insufficienza di redditi da lavoro, che riguarda persone in età attiva senza problemi di salute.

Si valorizzino, pertanto, tutte le ingenti risorse investite, riutilizzando bene le misure che già ci sono (oltre 60), semplificando le procedure, separando in modo definitivo previdenza ed assistenza nei bilanci Inps. Si ripensino bene e si rafforzino le misure di tutela della non autosufficienza (l’assegno di accompagnamento può continuare ad essere slegato dal reddito?); si portino le misure per la tutela del lavoro nell’ambito delle politiche attive del lavoro stesso e non dell’assistenza. Si promuovano, infine, reti territoriali( non i soli Centri per l’impiego) per la presa in carico della persona e della famiglia povera: saranno queste ‘reti’ il vero motore applicativo delle misure per una vera inclusione sociale. La storia di questi ultimi trenta anni, infatti, ha insegnato che il solo intervento finanziario non è efficace per uscire dalla povertà.

Alberto Leoni

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