Alcuni opinionisti affermano che l’artista vuole imitare icone come Michael Jackson o Boy George, che vuole stupire, far parlare di se e di provocare. Ma c’è un momento, nella vita di un artista, in cui salire su un palco smette di essere spettacolo e diventa necessità. È quello che dice di aver vissuto Marco Mengoni a Napoli, quando, a mezzanotte passata, ha abbassato le difese davanti ai giornalisti come poche volte prima d’ora. Nessun disco da promuovere, nessun singolo in uscita. Solo lui, fragile e potente, in equilibrio su una linea sottile che divide la musica dal vissuto più intimo. Mengoni non ha mai nascosto l’abisso in cui è sprofondato dopo la morte della madre, nel 2024.
«È un momento buio, lo è ancora e forse lo sarà sempre», ha detto. Ed è in quel buio – nella sua cameretta “con il buco nero” – che ha iniziato a ricostruirsi, tassello dopo tassello, come si fa con le case: partendo dalle fondamenta, non dall’attico. Tredici anni di carriera per meritarsi quel palco negli stadi, per arrivare pronto a incontrare davvero il suo pubblico. Se il corsetto di Marco Mengoni vi distrae dalla sua musica, abbiamo un problema. Il primo concerto del tour negli stadi, tenuto allo stadio Maradona di Napoli, non è stato solo uno show musicale, ma un’opera pensata, costruita come una tragedia greca. Prologo, parodo, episodi, stasimi, esodo e infine catarsi: ogni parte del live ha seguito una scansione drammaturgica precisa. Durante il brano “Voglio”, Mengoni ha gridato al pubblico “Voglio vestirmi come mi pare”, rispondendo a chi aveva criticato il suo corsetto con un messaggio di libertà che è esploso in un’ovazione.
La moda, per lui, non è mai accessorio: è un linguaggio. È parte della narrazione.
E in questo racconto, che rifiuta barriere e confini, ogni dettaglio – anche l’abbigliamento – serve a comunicare qualcosa di autentico, di necessario. Quello di Mengoni è un tour che parla di libertà. Di scegliere, di sentirsi legittimati a essere ciò che si è. Anche indossando un corsetto, come ha fatto lui. «Mi metto quello che mi fa stare bene. Mi piaccio così, e tutti dovrebbero fare lo stesso», ha detto dal palco. È un gesto che va oltre la moda. È un’affermazione di identità, quella vera, quella che spesso costa. «La vita è una sola – ha aggiunto – e se non sono me stesso adesso, quando lo sarò mai?» Il palco, però, non è solo specchio dell’anima, ma anche megafono per le battaglie in cui si crede. E Mengoni ha alzato la voce sventolando la bandiera della Palestina e urlando: «Stop a questa roba orribile». Perché essere un artista, oggi, significa anche prendersi la responsabilità di guardare il mondo, non solo i riflettori.
Così, tra fragilità e denuncia, Marco Mengoni ha aperto uno spazio nuovo, in cui il silenzio non è assenza ma tempo di ascolto, e dove l’identità non si spiega ma si indossa, si canta, si vive. Da Napoli, il viaggio è ripartito. E non è solo musica: è un atto d’amore verso sé stessi, e verso chi sceglie di ascoltare con il cuore.
Mengoni lo ha detto chiaro sul palco che vuole vestirgli come gli pare e che non gli importa delle critiche, ma siamo sicuri sia così?
Valentina Ruzza