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Cresce la disaffezione per il proprio lavoro: “Conta lo stipendio ma in equilibrio con vita privata”

In Italia cresce la disaffezione per il proprio lavoro, tanto da porre il paese primo in Europa in questo senso. Inoltre molti vorrebbero cambiare occupazione ma hanno scarse competenze: il 52%, per esempio, non è in grado di sostenere una conversazione in inglese. Sono i risultati del White Paper dedicato al tema dei quiet quitters, redatto da Twenix. Il termine, spiega la Ed-Tech linguistica che aiuta professionisti e aziende a potenziare e migliorare la comunicazione in inglese, si potrebbe tradurre con “dimissioni silenziose”, ma rivela anche un fenomeno, cioè “il sempre più diffuso senso di frustrazione correlato al lavoro, già messo in luce dalla Great Resignation (le dimissioni di massa verificatesi a partire dal 2021) che induce a ripensare la cultura del sacrificio sul lavoro e a ricercare un migliore equilibrio tra vita privata e impiego”, si aggiunge. Secondo l’indagine State of the global workplace 2022 della società americana di analisi e consulenza Gallup: la percentuale media di engagement a livello globale è del 21%; negli Stati Uniti almeno la metà degli americani sembra composta da quiet quitters; l’Europa è ultima tra i continenti per coinvolgimento sul lavoro, con una percentuale del 14%; l’Italia si colloca all’ultimo posto in Europa con una percentuale di engagement del 4%. Secondo un altro studio citato nel white paper, il 95% degli intervistati considera la compatibilità con la vita privata l’aspetto più importante sul lavoro (a pari merito con la retribuzione).

“Il paradigma lavorativo tradizionale è stato totalmente ribaltato. Fino a poco tempo fa, nel mondo del lavoro si valorizzava il concetto dello sforzo, ma soprattutto del sovraccarico: era così ben visto che, nonostante non fosse ricompensato a livello economico e con possibilità di crescita interne all’azienda, veniva totalmente accettato”, commenta in proposito Beatriz López Arredondo, specializzata nella direzione e gestione delle risorse umane, e oggi Head of People in Twenix. Oggi, aggiunge, “tutto questo è cambiato: si dà valore ai risultati, all’impegno, alla proattività e a tanti altri aspetti che hanno a che vedere con il vero impatto che hanno le persone all’interno delle organizzazioni”. Ad essere meno disposti a scendere a compromessi sul lavoro, dunque, sarebbero in particolare i giovani Millennials e della Generazione Z, che devono confrontarsi con un mercato del lavoro che dà meno stabilità e opportunità di crescita e inclini perciò a cercare la realizzazione personale anche in altri aspetti dell’esistenza, si spiega ancora da Twenix. Andare incontro a queste esigenze “diventa dunque necessario per le imprese che vogliano provare ad arginare l’ondata di malcontento, specie se si considera che il tasso di quiet quitting appare maggiore laddove la leadership aziendale si mostra incapace di conciliare gli obiettivi di business con le esigenze del personale, come segnalato da uno studio della Harvard Business Review”. Per López Arredondo “il management oggi sta cambiando: dobbiamo capire le preoccupazioni, le motivazioni e gli equilibri dei nostri team, la voglia che hanno di continuare a crescere, il loro stato di maturità e le loro priorità di formazione”.

“Le aziende devono creare spazi, dinamiche, progetti e avanzare proposte per conoscere lo stato psico-fisico-emozionale dei propri lavoratori. Opzioni che includono, naturalmente, percorsi educativi e di formazione: le grandi imprese e multinazionali hanno sempre offerto perks e benefit, ma sempre più aziende piccole, medie o startup si stanno muovendo in questo senso, proponendo possibilità di home office, flessibilità oraria, un piano di wellbeing aziendale”, analizza ancora. Lo ‘star bene’ al lavoro, per gli esperti di Twenix, passa anche attraverso la formazione, “aspetto fondamentale sia per le aziende che per i dipendenti”. Uno studio condotto in maggio da Twenix dal titolo ‘Perché l’inglese è ancora un ostacolo nella tua azienda (e come superarlo)’ rivela che per un italiano su due l’inglese nel mondo del lavoro rappresenta ancora un ostacolo: sebbene il 93% degli intervistati ne riconosca l’utilità in ambito lavorativo, il 52% di essi si blocca nel momento di intavolare una conversazione. “Secondo quanto riferisce GoodHabitz, sebbene l’80% dei professionisti abbia necessità di formarsi, solo il 15% di essi decide di intraprendere un percorso formativo. Questa voglia di autoformarsi a volte non si concretizza per una questione economica, di priorità, di impegni”, spiega López Arredondo. “Le cose cambiano se è la compagnia a offrire ai dipendenti una possibilità per formarsi in inglese”. Infine una considerazione sul tipo di percorso di formazione che per López Arredondo deve garantire una spendibilità nella vita professionale di tutti i giorni. “Troppo spesso questo non accade: il limite con cui tanti si scontrano è un metodo di insegnamento vecchio stampo, teorico, fatto di lezioni in presenza e ore di studio a casa, che spesso non è in grado di assicurare i risultati sperati, perché inadeguato alla realtà lavorativa, in cui è richiesto soprattutto un sapere pratico”.

 

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