La recente promozione di Fitch, che ha alzato il rating dell’Italia da BBB a BBB+, è un segnale incoraggiante”. Arriva dopo che altre agenzie internazionali avevano già intravisto un miglioramento nei fondamentali del Paese: S&P aveva rivisto al rialzo la sua valutazione in primavera e Moody’s mantiene un outlook positivo. La fiducia crescente degli osservatori internazionali significa che l’Italia oggi paga meno interessi sul proprio debito e questo riduce la pressione sulle casse pubbliche”. Gli scenari presenti e soprattutto futuri dell’economia italiana nell’analisi di Ubaldo Livolsi, professore di Corporate Finance e fondatore della Livolsi & Partners S.p.A..
“Il governo non ha nascosto l’entusiasmo. La premier Giorgia Meloni ha parlato di un riconoscimento del percorso intrapreso, mentre il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti ha sottolineato che si potranno fare cose che con lo spread a 250 punti non sarebbero state possibili. Tuttavia- aggiunge- lo stesso ministro ha ricordato che non esistono tesoretti da distribuire e che la prudenza resta la bussola. Una precisazione necessaria: ogni segnale positivo sui conti pubblici in Italia scatena richieste di nuove spese, il classico ‘assalto alla diligenza’. La vera sfida è opposta: mantenere la rotta, utilizzare il margine offerto da tassi più bassi per ridurre il deficit, portare il rapporto debito/Pil su una traiettoria sostenibile ed evitare di rientrare nella procedura europea per disavanzo eccessivo, che richiede di riportare il deficit sotto la soglia del 3% del Pil”.
“Tutto bene? In parte sì- continua Livolsi- L’Italia ha riconquistato credibilità internazionale e questo è un capitale prezioso. Ma sarebbe illusorio pensare che basti a garantire crescita e benessere. I dati lo dimostrano: nel secondo trimestre 2025 gli occupati hanno raggiunto quota 24,2 milioni, ai massimi storici (Istat), e il tasso di occupazione è salito al 62,7%. Allo stesso tempo, però, il tasso di disoccupazione giovanile rimane tra i più alti d’Europa, attestandosi al 20,1%, mentre il 23,1% della popolazione vive a rischio di povertà o esclusione sociale (Istat). La vera questione resta la produttività. Ogni ora lavorata in Italia continua a produrre meno reddito rispetto ai partner europei più forti, e il divario con Germania e Francia negli ultimi anni non si è ridotto. È un nodo strutturale che nessun upgrade di rating può sciogliere, ma che va affrontato con riforme, investimenti e una strategia industriale di lungo periodo. Qui entra in gioco l’innovazione tecnologica. L’intelligenza artificiale viene indicata come la chiave per un salto di produttività paragonabile a quello dell’elettricità a fine Ottocento. È vero. L’AI può ridurre costi, accelerare processi, creare nuovi modelli di business, ma non è una panacea. Richiede infrastrutture digitali adeguate, grandi investimenti in energia a prezzi competitivi per alimentare data center sempre più energivori, e soprattutto capitale umano qualificato. Senza un sistema educativo e formativo capace di trattenere i talenti, l’Italia rischia di restare indietro”.
“Ci sono anche altri elementi da valutare: l’etica dell’intelligenza artificiale, la protezione dei dati, l’impatto sull’occupazione. E c’è la questione geopolitica. L’Europa non può permettersi di restare spettatrice in una partita dominata da Stati Uniti e Cina. Non basta regolare l’AI: serve una politica industriale che assicuri autonomia strategica, evitando di cadere in una dipendenza tecnologica che potrebbe trasformarsi in ricatto. Gli accordi separati che Washington sta tessendo con Pechino e con Londra – questi ultimi rappresentati plasticamente dal fatto che Donald Trump, nella sua ultima visita nel Regno Unito, fosse accompagnato da Sam Altman, ceo di OpenAI (ChatGpt), e da Jensen Huang, ceo di Nvidia – dimostrano quanto sia alta la posta in gioco” conclude Livolsi.