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“Mio figlio costretto a lavorare all’estero nonostante il suo titolo di studio alberghiero”. Lo sfogo di un padre

Anni di studio, formazione, creazione del proprio futuro, prima immaginandolo in ogni dettaglio, poi mettendo in pratica il frutto dei ragionamenti condivisi in famiglia per arrivare, dopo la maturità, a non trovare lavoro, sentirsi dire che il titolo di studio acquisito non vale ed ecco che i sogni a 20 anni iniziano ad infrangersi. Allora cosa fare? Il più dei giovani si trasferisce all’estero e lì, per assurdo, trovano la loro strada.

A confermarlo S.Z., padre di un ragazzo padovano che, al noto quotidiano Il Gazzettino, racconta la loro esperienza: “Ho letto con dispiacere che gli Istituti Alberghieri stanno subendo una forte riduzione di iscrizioni. Una tale situazione per un Paese a vocazione turistica dovrebbe alquanto preoccupare. Vorrei raccontare cosa è accaduto a mio figlio che ha frequentato l’Alberghiero di Falcade, pur noi abitando a Padova e senza essere una famiglia di tradizioni alberghiere. Dopo una breve esperienza in Italia, dove mio figlio ha sperimentato contratti da lavapiatti, orari di 12 ore per sei giorni su sette e offerte parzialmente in nero con stipendi da sussistenza, ha deciso di emigrare in Olanda: qui è stato inquadrato regolarmente, hanno richiesto il titolo di studio e ha un ottimo stipendio e orari umani. Ora è da 5 anni in una nota località turistica del Valenziano in Spagna paragonabile ad una Jesolo o Rimini, all’età di 27 anni è inquadrato in una struttura a 3 stelle con contratto a tempo indeterminato quale Capo Partita per 8 ore al giorno per 5 giorni alla settimana effettivi. Prende 1600 euro netti più ripartizione mance. Sottolineo che il costo vita in Spagna è ufficialmente circa 20% in meno dell’Italia, la pressione fiscale è circa 1 punto % in meno che da noi, che le normative vigenti vincolano maggiormente la qualifica con l’attività effettivamente svolta, che sono definiti minimi salariali per legge in base alle qualifiche. Certo la vita da cuoco prevede un certo grado di sacrificio ma la cosiddetta imprenditoria turistica dovrebbe per migliora l’offerta del nostro Paese, maggiormente affidarsi a chi ha regolarmente seguito un corso appropriato di studi e offrire stipendi e orari dignitosi.” Una testimonianza che dovrebbe fare ragionare sul fatto che non sono i singoli individui, in possesso di un adeguato carico culturale sulle spalle, a non essere all’altezza dei posti di lavoro che, specialmente al nord, sono vacanti. Tra contratti da fame e stipendi in parte in nero, il lavoratore non trova più stimolo per impiegarsi in Italia ed emigra, portando cervello e manodopera all’estero. Sempre più genitori dicono la loro sul tema lavoro e giovani, e sempre più famiglie puntano il dito contro aziende e Stato Italiano, discolpando i loro figli e incoraggiandoli, anche se a malincuore, di trovare il loro posto nel mondo fuori dal Belpaese. Questo papà della provincia di Padova, ha creduto nella scuola alberghiera dove il figlio ha studiato, sulla quale hanno riposto sacrifici, hanno costruito il futuro del loro ragazzo, per poi rassegnarsi all’evidenza dei fatti, ovvero che per lavorare sarebbe dovuto andare all’estero. “Va sottolineato che una buona percentuale di iscritti a questa scuola venivano da famiglie già impegnate nel settore alberghiero o della ristorazione, – prosegue S.Z. – ovviamente per questi ragazzi le probabilità di collocazione lavorativa era ed è superiore. Ma bisogna dire anche un’altra cosa: una percentuale rilevante di compagni di corso di mio figlio ha comunque preferito andare a lavorare all’estero. C’è chi è andato in Olanda, nei Paesi Nordici e addirittura in Australia. E su questo dato già si dovrebbe fare una riflessione. Ma non finisce qui.” Il ristoratore, uno dei lavori più difficili sia da un punto di vista fisico, in quanto ci vuole attenzione, concentrazione, velocità, operatività, ma anche da un punto di vista apprendimenti di nozioni culinarie, oltre che psicologico, per capire e seguire il cliente. Una figura dalle mille sfaccettature insomma, che deve essere formata correttamente e che non può improvvisarsi solo grazie alla molta pratica. Al giorno d’oggi per questa professione è necessario avere una formazione corretta su tutti i fronti, perché il cliente è sempre più esigente, la cucina italiana è cresciuta tantissimo e aver frequentato un’istituto alberghiero è una qualità da non sottovalutare. Eppure in Italia spesso non viene considerato come una qualifica professionale, per assurdo, ma visto quasi con l’obbligo di dover poi pagare questa figura per ciò che davvero vale. “Esiste un altro aspetto che coinvolge il “mestiere” del cuoco. Già, perché essere cuochi, quando si dibatte della mancanza di personale nel settore della ristorazione, viene percepito come un lavoro che si impara quasi per passaparola, che si impara quasi esclusivamente “sul campo”, o meglio, in cucina. E allora mi sorge spontanea la domanda: se questa è la mentalità, per quale motivo una famiglia dovrebbe far investire al proprio figlio anni e anni in una scuola, tempo passato a studiare e imparare, e non fra i fornelli, se poi gli imprenditori che dovrebbero assumere questi ragazzi considerano la preparazione degli Istituti Alberghieri insignificante? E questa idea non tiene conto delle centinaia di ore passate dai ragazzi in cucina e degli stage fatti nelle strutture alberghiere. Sul mercato si trovano addirittura corsi privati che in poche decine di ore sarebbero – in teoria – in grado di preparare la figura professionale di cuoco!”

Laura San Brunone

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