C’è un momento, nel cuore dell’inverno veneto, in cui il confine tra realtà e mito si assottiglia fino quasi a scomparire. Succede quando il sole cala troppo presto, l’aria diventa tagliente e dalle montagne arriva un rumore che non si dimentica: il passo pesante dei Krampus, i demoni pelosi che da secoli custodiscono una tradizione più antica del Natale. È un suono che vibra nelle ossa. Campanacci, catene, ruggiti. Un richiamo che per generazioni ha segnato l’inizio di un rito collettivo capace di unire paura, festa e catarsi: la notte di San Nicolò. A far tremare la terra sono loro, i Krampus, creature metà uomo e metà bestia, con maschere intagliate a mano in legno, corna vere, pelli animali e occhi che, alla luce delle fiaccole, sembrano vivere di vita propria. Non sono semplici figuranti: sono i guardiani di un racconto che affonda le sue radici in epoche in cui l’inverno non era una stagione, ma una minaccia. In tempi lontani, quando la montagna decideva chi sarebbe sopravvissuto e chi no, il buio veniva esorcizzato con ciò che l’uomo aveva a disposizione: fuoco, rumore, maschere. Nacquero così le mascherate invernali, riti di passaggio che servivano a proteggere la comunità e a ingraziarsi forze più grandi di lei. Il Krampus era il volto del caos, della natura selvaggia, del freddo che avanzava. Un monito e una difesa allo stesso tempo. Poi arrivò il cristianesimo, ma la montagna non dimentica.
San Nicolò , il santo buono che premiava i bambini e portava doni , non sostituì il Krampus: gli camminò accanto. La luce e il buio, insieme. Una dicotomia perfetta che ha permesso alla tradizione di sopravvivere, trasformandosi nel tempo senza mai perdere la sua essenza. Ancora oggi, nelle sere tra fine novembre e l’8 dicembre, il Veneto rivive quel legame antico. A Vittorio Veneto, a Cortina, nelle vallate bellunesi, interi paesi si preparano come si farebbe per un appuntamento sacro: si accendono bracieri, si allestiscono percorsi, le famiglie arrivano ore prima per conquistare un buon posto. E quando le luci si abbassano, il silenzio si spezza. I Krampus escono dal buio come se il bosco stesso li avesse partoriti. La scena è potente, quasi cinematografica. Le maschere scolpite, ognuna diversa dall’altra, raccontano storie, paure, antenati. I costumi pesano anche cinquanta chili, costruiti durante mesi interi da artigiani che dedicano la vita a tenere viva questa eredità. Il fuoco illumina le corna, il fumo avvolge i vicoli, i bambini stringono forte la mano dei genitori ma non distolgono lo sguardo. Perché il Krampus spaventa, sì, ma affascina. È il buio che puoi osservare senza esserne inghiottito. Dietro quella ferocia c’è però un codice preciso. Diventare Krampus è un privilegio, non un gioco. Nelle vallate alpine, il ruolo si tramanda di generazione in generazione: ci sono insegnamenti, regole, anni di apprendistato. E una legge non scritta che nessuno osa infrangere: la maschera non si toglie mai. L’identità resta segreta per proteggere il rito e preservarne la magia. Un Krampus senza maschera sarebbe come un inverno senza neve: semplicemente impensabile. E mentre il corteo avanza, mentre il santo chiude la sfilata ricordando che la bontà è più forte della paura, ognuno — adulto o bambino — porta a casa qualcosa. Forse un brivido. Forse un ricordo. Forse la sensazione, antica e bellissima, di appartenere a una storia che esiste da molto prima di noi. I Krampus non sono solo folklore: sono la memoria vivente di un’Europa che si raccontava attraverso i simboli. Sono l’esorcismo collettivo del buio. Sono la prova che, anche oggi, abbiamo bisogno di riti che ci uniscano e ci permettano di guardare la nostra parte oscura senza paura. Perché la verità è questa: il Veneto non accoglie i Krampus. Li aspetta. Ogni anno, con la stessa trepidazione di sempre.
Valentina Ruzza