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Le madri invisibili: vivere accanto a un figlio autistico in un’Italia ancora impreparata

di Valentina Ruzza

C’è un’Italia silenziosa, che ogni giorno si sveglia prima degli altri, si carica sulle spalle il peso di una diagnosi e di una società che ancora non sa accogliere. È l’Italia delle madri di bambini e giovani adulti con autismo. Donne che affrontano una quotidianità fatta di lotte, di richieste inevase, di burocrazia estenuante, ma anche di amore immenso, fede incrollabile e una forza che non trova spazio nelle statistiche. Gabriella è una di queste madri. Quando nel 1993 ha ricevuto la diagnosi di sclerosi tuberosa e autismo per sua figlia Benedetta, le è crollato il mondo addosso. Era medico, ma nulla l’aveva preparata a essere la madre di una persona con disabilità. «Mi sentii morire», racconta oggi, con la lucidità di chi ha trasformato il dolore in battaglia civile. Da allora ha scritto libri, denunciato l’assenza dello Stato, affrontato in prima persona i limiti del sistema scolastico e sanitario. Ma la sua voce, come quella di tante altre, resta confinata a chi già conosce la fatica di vivere in un Paese dove spesso essere madre di un figlio autistico significa diventare anche terapista, avvocato, infermiera, assistente sociale. Rosaria, invece, ha scelto i social. Il suo profilo “Castelli di carta” racconta la quotidianità con Enzo e Aurora, entrambi nello spettro autistico. Niente filtri, niente retorica. Solo la verità nuda e cruda di chi, giorno dopo giorno, cerca di costruire una routine possibile. «Mi sono ritrovata a fare tutto da sola», spiega, dando voce a quella solitudine che conoscono fin troppo bene le famiglie che ricevono una diagnosi. Una solitudine che si aggrava quando, dopo la diagnosi precoce, arrivano le liste d’attesa di due o tre anni per una terapia. Un paradosso che mostra quanto ci sia ancora da fare, anche nei territori più avanzati. E poi c’è Paola.

Negli anni Ottanta le dissero che suo figlio Marco, oggi 38enne con autismo non verbale, era così perché lei non l’aveva voluto davvero. Erano gli anni bui della teoria della “madre frigorifero”, quando il pregiudizio faceva più male della malattia. Paola non si è arresa. Ha fondato una sede di Angsa, creato un centro agricolo per l’inserimento lavorativo e oggi sta realizzando un cohousing per garantire un futuro dignitoso ai ragazzi come Marco, quando i genitori non ci saranno più. «Il Dopo di Noi non è un concetto teorico: è una domanda che ci toglie il sonno». Dietro ogni nome c’è una storia di resilienza. Dietro ogni madre, un sistema che troppo spesso le lascia sole. La retorica dell’“angelo del focolare” qui si infrange contro il muro di realtà fatte di richieste inevase, di terapie private troppo costose, di scuola inclusiva solo sulla carta. Eppure, queste donne non chiedono eroi: chiedono diritti.

Chiedono che i loro figli non vengano più esclusi dalle gite scolastiche, dalle feste di compleanno, dalla possibilità di un lavoro. Chiedono di non dover diventare attiviste per ottenere ciò che dovrebbe essere garantito per legge. Oggi più che mai, è tempo di ascoltare. Di restituire spazio e dignità a queste voci. Di trasformare la compassione in impegno politico e civile. Perché una società che lascia sole le madri è una società che ha fallito nella sua missione più profonda: prendersi cura di tutti.

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