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Dal Veneto una riflessione su quando gli italiani andavano a salvare i profughi all’altro capo del mondo

Missione Militare Umanitaria ''Mare Nostrum'' - Un profugo siriano mentre abbraccia la sua bambina all'inetrno della Nave anfibia San Marco durante una operazione di recupero di naufraghi. 25/10/2013. ANSA/GIUSEPPE LAMI

Tra il lungo periodo di quella che milioni di italiani hanno chiamato la ‘via dolorosa’ verso le Americhe e quello più recente delle spiagge e dei porti invasi da popoli in fuga, c’è stato un tempo breve in cui il ricordo di essere stato un popolo di emigranti era così forte da rendere insopportabile restare a guardare mentre migliaia di sudvietnamiti affogavano fuggendo dal regime dei Viet-Cong.

C’è stato un tempo in cui gli italiani i profughi se li andavano a raccogliere in mezzo all’Oceano e al ritorno in porto trovavano ali di folla festante. Non c’è marinaio, sottufficiale o ufficiale di Marina che non ricordi quel tempo e che, sentendolo citare, non dica con un sospiro “eh, i boat people”.

Oggi agli italiani di mezza età – e nemmeno a tutti – quell’espressione ricorda i tg in bianco e nero, le immagini confuse che venivano dall’altra parte del mondo. A qualcuno, forse, uno storico reportage di Tiziano Terzani che tra dicembre ’78 e gennaio ’79 raccontò il dramma di cinquemila profughi sudvietnamiti, stipati su due navi al largo delle baie di Hong Kong e Manila, nell’interminabile attesa chele autorità locali autorizzassero lo sbarco.

Terzani fu l’unico intellettuale europeo a mobilitarsi: in Francia Jean-Paul Sartre e Raymond Aron, sostennero la causa dei boat people di fronte al presidente francese Valery Giscard d’Estaing che inviò uno squadrone navale di soccorso.

L’Italia si affidò a Giuseppe Zamberletti, la cui abilità nei soccorsi il Paese aveva imparato a conoscere in occasione del terremoto in Friuli del 1976. Venne allestito un piccolo gruppo navale formato dagli incrociatori Andrea Doria e Vittorio Veneto e dalla nave appoggio Stromboli.

Le navi furono attrezzate con un rinforzo delle strutture mediche: sala operatoria e ospedale per 832 posti letto. A bordo vennero imbarcati gli interpreti: padre Filippo Tran Van Hoai sulla Vittorio Veneto, padre Domenico Vu Van Thien sull’Andrea Doria e lo studente Domenico Nguyen Hun Phuoc sulla Stromboli.

Ed è proprio quest’ultimo il protagonista del romanzo ‘Il Colore della tempesta’ (Salani, 279 pagine, 16 euro) del giornalista veneziano Nicolò Zuliani, che sui boat people ha realizzato un reportage pubblicato online. Nel corso del suo lavoro ha avuto occasione di incontrare alcuni dei 902 sudvietnamiti soccorsi nel corso di quella ‘impresa italiana’ (come recita il sottotitolo del volume) e che ancora si incontrano con gli uomini della Marina che li portarono in salvo. Lo abbiamo intervistato sul lungo lavoro di ricerca che è alla base del romanzo.

Come si è appassionato a questa storia quasi sconosciuta?

Ci sono tante cose che girano su Internet, ho tanti amici che servono lo Stato e quando su Facebook ho trovato una foto di marinai italiani con dei ragazzini asiatici a bordo del Vittorio Veneto (ex ammiraglia della Marina Italiana, messa in disarmo nel 2006, ndr) ci ho messo solo due ore a ricostruire tutta la storia. Era già presente in trafiletti sui giornali di provincia del Veneto perché ogni anno marinai e vietnamiti si trovavano a festeggiare. E secondo me questa storia andava raccontata meglio.

Perché finora non è stato fatto?

Credo che per scrivere certe storie serva avere una sorta di senso della narrazione, saper trovare e voler cercare la bellezza della storia e raccontarla in un modo che, pur se romanzato, sia accattivante. Qualcosa che renda non solo la cronaca degli eventi, ma le emozioni che quei fatti hanno portato e portano con sé.

Perché un romanzo e non un saggio?

Un saggio sarebbe stato uno strumento per gli addetti ai lavori: gli storici e chi ha bisogno di fonti. Al lettore non arrivi con solo i fatti, ma con le testimonianze e le persone. Una cosa è fare giornalismo su un evento e un’altra la fiction.

Quanto c’è di fiction e quanto di cronaca in questo libro?

C’è molta poca fiction. Tutte le cose – soprattutto le più incredibili – sono accadute realmente. Ho capito di avere un protagonista quando mi sono imbattuto nel personaggio dello studente Domenico Nguyen Hun Phuoc. Già la sua scelta di imbarcarsi in quella avventura era epica. La scelta di un eroe che poi decide di scomparire. Ci sono quelli che parlano bene, fanno grandi proclami e poi non concludono un bel niente e poi ci sono quelli che agiscono nel silenzio e poi tornano a casa a fare il sugo. Siamo un popolo strano: pieno di millantatori, ma anche di uomini silenziosi che fanno cose grandiose e tornano a preoccuparsi di cambiare lo scaldabagno.

Come si è documentato?

La mia fortuna è stata conoscere uomini e donne di Stato che mi hanno indirizzato e aiutato, ma il grosso è stato per merito delle pagine che i marinai e i vietnamiti collezionavano: fotografie, documenti, biglietti. Poi ci sono i fatti sono incontrovertibili forniti dagli archivi della Marina. Lo sforzo corale collettivo è nato dopo la pubblicazione del mio reportage del 2019 che ha fatto rivivere quella pagina a tanti protagonisti. E grazie ai social ho raccolto il materiale e gli aneddoti.

Cosa è cambiato oggi rispetto a ieri nel nostro atteggiamento verso i profughi?

Quello era un mondo con una moralità e una mentalità cattolica molto forte. Il ruolo della chiesa all’epoca era importantissimo e la retorica cattolica era onnipresente. Non si può parare dell’Italia del ‘79 senza parlare del ruolo della Chiesa. Ma non bisogna pensare che quella sia stata una integrazione facile mentre oggi esiste una integrazione difficile. Allora abbiamo fatto una cosa grande e continuiamo a farla; è questo che ci ha reso grandi. L’integrazione non è facile: ha incomprensioni e difficoltà, va guardata nei numeri non nel singolo caso. Il mondo cambia ma i flussi miratori ci sono sempre stati. Migrare è parte della vita e negarlo è negare la nostra storia.

Che fine hanno fatto i 902 vietnamiti salvati e arrivati a Venezia tra due ali di folla che li accoglievano festanti?

Pochissimi sono tornati in Vietnam, alcuni sono andati dove c’erano altre comunità vietnamite, dome in Francia e Canada. Alcuni sono rimasti in Veneto.  C’è una foto che mi piace molto ed è quella di un neonato che oggi è un uomo fatto e tiene in braccio il figlio in una località balneare tipicamente italiana. Quella foto rappresenta perfettamente l’epilogo della storia di un bambino che attraversa l’inferno e diventa un italiano qualsiasi. Per i marinai è stata l’impresa della vita. Un po’ la foto dei loro vent’anni. Hanno un affetto quasi familiare verso i bambini e le persone che hanno salvato. Quando salvi qualcuno, il legame che si crea non è paragonabile a nessun altro.

Agi