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‘Diffamazione aggravata sui social anche senza i nomi dei destinatari’

La Corte di Cassazione nella sentenza n.10762/2022 ha statuito un importante principio in tema di diffamazione a mezzo social secondo cui ai fini del reato non è necessario che sia indicato chiaramente il nome della persona offesa, essendo sufficiente l’indicazione di elementi personali o temporali della fattispecie per l’individuazione del soggetto offeso. In tal senso, post denigratori che fanno riferimento ad elementi fisici quali colore della pelle, altezza, peso ecc. o ad elementi chiaramente riconducibili ad un soggetto determinato, possono integrare il reato di diffamazione aggravata.

“Si tratta di un’importante pronuncia della Cassazione che sta iniziando a prendere sul serio il problema dei reati commessi a mezzo web o social – commenta il presidente Codacons Marco Maria Donzelli – è un problema molto diffuso che può colpire chiunque. Scriveteci a info@codaconslombardia.it per ottenere consulenza e assistenza legale in materia”.

L’approfondimento

 

Molte persone usano i social come una valvola di sfogo e, per sfogare la loro rabbia o insoddisfazione, lanciano provocazioni, offese e apprezzamenti negativi di ogni genere. I bersagli di queste aggressioni virtuali possono essere parenti, conoscenti, colleghi di lavoro, esponenti politici, personaggi famosi, o anche perfetti sconosciuti, incrociati per caso nei commenti su qualche pagina o gruppo.

Alcuni credono che basta non nominare l’interessato per non rischiare nulla. In realtà, non è così. Insultare su Facebook senza fare nomi è reato – e precisamente diffamazione aggravata – quando le espressioni offensive o denigratorie sono riconducibili in modo univoco a una determinata persona. Questo si ricava dal contesto e anche dal luogo in cui il post è stato inserito, come la «bacheca Facebook», cioè la pagina che contiene il profilo di un soggetto.

Ad esempio, una recente sentenza della Corte di Cassazione [1] ha confermato la condanna per diffamazione aggravata nei confronti di due donne che avevano preso di mira un’amica e collega chiamandola “nana” a causa della sua bassa statura e facendo commenti sprezzanti e denigratori su questa circostanza. La Corte ha ritenuto che «lo specifico contesto territoriale in cui operavano gli imputati e la persona offesa» (una cittadina con meno di 20mila abitanti) e «la combinazione di elementi» desumibili dai commenti offensivi fossero tali da rendere ben riconoscibile la persona colpita da questi epiteti offensivi. Sicuramente, ciò era avvenuto nella cerchia dei suoi «amici o conoscenti o familiari», ma molto probabilmente anche nel suo ambiente di lavoro (le imputate erano colleghe).