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Fede trattato come delinquente nel Paese che celebra i pedofili e libera mafiosi e nazisti

di Fabio Bonasera

L’Eco del Sud

Italia, il Bel Paese. Quello in cui un giornalista 89enne ai domiciliari viene arrestato per evasione a causa di un probabile disguido burocratico mentre a un gerarca nazista ultra 90enne, condannato all’ergastolo, viene concesso di girare liberamente per Roma grazie a un permesso di lavoro. Mentre a chi compra spose 12enni in Africa vengono innalzati monumenti.

A suscitare l’amara riflessione è quanto accaduto l’altro ieri sera a Emilio Fede, ex direttore del Tg1 e del Tg4. Arrestato a Napoli per evasione mentre era a cena sul lungomare con la moglie, l’ex senatrice Diana De Feo, in occasione del suo 89esimo compleanno. Condannato a 7 mesi di reclusione ai domiciliari e a 4 anni di servizi sociali per favoreggiamento della prostituzione nell’ambito del processo Ruby, secondo le autorità non avrebbe atteso l’autorizzazione del giudice di sorveglianza per trasferirsi da Milano a Napoli. Tuttavia, fonti a lui vicine riferiscono che avrebbe comunicato il suo spostamento ai carabinieri di Segrate.

All’Ansa, il giornalista di Barcellona Pozzo di Gotto, in provincia di Messina, parla di un’esperienza “terrorizzante”. “Mi sono venuti ad arrestare per evasione – racconta – perché non ho atteso le disposizioni per i servizi sociali. In un ristorante si sono presentati un capitano dei carabinieri, peraltro gentilissimo, con tre militari, come fossi il peggiore dei delinquenti”.

Al momento della condanna, lo scorso anno, i giudici hanno tenuto conto dell’età di Fede e dei suoi problemi di salute. Ciononostante, non gli è stata risparmiata la gogna pubblica per quello che appare un semplice difetto di comunicazione. E se anche così non fosse, colpisce in ogni caso il trattamento riservato a un uomo che per anni ha rappresentato il volto principale dell’informazione della rete ammiraglia della televisione di Stato, rimasto coinvolto in un’inchiesta che, a detta di molti, è stata montata unicamente per colpire Silvio Berlusconi e le persone a lui vicine. Sospetti alimentati dal caso Palamara e dai messaggi che l’ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati era solito scambiare con le sue amicizie altolocate. Compreso quello nel quale riteneva necessario colpire Matteo Salvini, a proposito del caso Diciotti. Non certo perché fosse colpevole ma per ragioni politiche.

Gli scandali che nell’ultimo anno hanno portato alla luce la pericolosa collusione tra magistratura e politica, quella di centrosinistra nello specifico, dovrebbero rimettere quanto meno in discussione l’epopea giudiziaria dell’ultimo quarto di secolo. Con Berlusconi al centro di una quantità spropositata di procedimenti. Bersagliato perfino nella causa di divorzio con Veronica Lario, a sua volta strumentalizzata dagli avversari politici, con assegni di mantenimento da oltraggio al pudore, azzerati dalla Cassazione solamente lo scorso anno.

Uno tsunami giudiziario che, talvolta, non ha risparmiato nemmeno i suoi più stretti collaboratori. Come Fede. Trattato, ieri non come fosse “il peggiore dei delinquenti” ma come nemmeno i peggiori delinquenti. Almeno in Italia. Dove, nel 2007, la comunità ebraica, e non solo, ha dovuto subire l’umiliazione della liberazione di Erich Priebke, responsabile, tra le altre cose, dell’eccidio delle Fosse Ardeatine. Al tempo, all’ex ufficiale delle Ss, seppure condannato all’ergastolo, non solo vennero concessi benefici di pena per motivi di salute esistenti soltanto nella sua fantasia e nei certificati di medici compiacenti. Ma perfino un permesso per uscire dai domiciliari e andare al lavoro. A 94 anni. Ci sarebbe da ridere se non fosse per le gravi implicazioni della vicenda.

L’Italia è il Paese della retorica partigiana da brandire come un’arma quando occorre distruggere il politico del centrodestra in quel momento più scomodo. Così è stato, in passato, per Berlusconi e così è, oggi, per Salvini. Oggetto non solo delle attenzioni di Luca Palamara e del tribunale dei ministri, ma anche della propaganda sinistrorsa che lo indica come il nemico giurato della democrazia. Come colui che mira alla ricostituzione del partito fascista. Salvo poi tacere quando i criminali di guerra veri, quando i nazisti veri, la fanno franca.

Nel Bel Paese, il 27 gennaio, giorno in cui si ricorda la Shoah, serve solo a fare campagna elettorale, non certo a onorare le vittime dei campi di sterminio. Così come la mafia serve unicamente come pretesto per non costruire le opere che servono al Sud. Mentre al Nord si susseguono uno scandalo dopo l’altro (l’ultimo è di ieri e riguarda la metro di Milano), senza che nessuno osi nemmeno proferire l’espressione “analisi costi – benefici”.

Poi, si sa, ogni occasione, perfino il Covid-19, è buona per allentare la morsa della giustizia. Quella autentica. Sì, perché, per chi non fosse bravo con le statistiche, 376 tra mafiosi e narcotrafficanti, molti dei quali condannati in via definitiva, rimandati a casa quando in cella sarebbero stati più sicuri (come certificato dal Garante nazionale delle private libertà e da Nicola Gratteri), rappresentano molto più di una semplice coincidenza. Se errare è umano, per sbagliare 376 volte bisogna essere molto peggio che diabolici. Soprattutto quando, ogni anno, circa mille innocenti avvizziscono in galera. Checché ne dica il guardasigilli, Alfonso Bonafede.

La condanna di Fede per il caso Ruby, del resto, non può non richiamare alla memoria un suo illustrissimo collega, Indro Montanelli. Uno che si vantava di avere comprato, insieme a un cavallo e a un fucile, una sposa bambina, un’eritrea appena 12enne, infibulata. Definendola “un animalino docile”, per poi cederla come nulla fosse a un generale che possedeva un harem. A uno così, per giunta anti repubblicano, dopo la morte, hanno intitolato strade, piazze, giardini pubblici. Ed eretto statue.

Il suo grande merito? Avere fatto guerra, tanto per cambiare, a Berlusconi. Nel marzo 2001, sebbene avesse governato appena sette mesi e si fosse reduci da cinque anni di governi Prodi, D’Alema e Amato, Montanelli definì, quella del proprietario di Mediaset, “la peggiore delle Italie che io ho mai visto”. Un’espressione, oltre che storicamente ingiustificata, grammaticalmente aberrante, che alle elementari segnerebbero con la penna color rosso fuoco, pubblicata naturalmente su la Repubblica. Da sempre l’organo di stampa privilegiato dalla propaganda di centrosinistra.

Un giudizio gratuito, il suo, al pari del coinvolgimento nel processo sulla trattativa Stato – mafia. Riguardante stragi avvenute prima dell’ingresso dell’ex premier in politica. Quando nelle istituzioni, quindi nello Stato, non aveva ruolo alcuno. Il livore del giornalista di Fucecchio, spirato appena qualche mese dopo, a 92 anni, non nasceva, del resto, da genuine ragioni etiche o ideologiche. Come sarebbe stato possibile, considerati i suoi trascorsi? A generarlo era semplicemente la rabbia per essere stato estromesso, nel 1994, dalla guida de il Giornale a causa del non soddisfacente riscontro in termini di vendite.

Eppure, a fronte delle sue azioni compiute durante la guerra in Etiopia, a dispetto della sua mai nascosta indole monarchica, nell’Italia partigiana e anti fascista, nell’Italia del codice rosso e dell’accoglienza dei migranti senza se e senza ma, c’è chi si scandalizza dinanzi a chi oltraggia i monumenti a lui dedicati. Del resto, questa, è anche l’Italia di Bibbiano.

Motivo per il quale, caro direttore Fede, la sensazione di chi scrive non è che lei sia stato trattato come il peggiore dei delinquenti. Se così fosse stato, le sarebbe andata di lusso.