Nel vedere le immagine, scattate questa mattina da Roberto Maculan, presidente della onlus umanitaria Missionland di Carrè, si fatica a credere che nell’Europa del 2021 ci siano esseri umani che vivono in condizioni così allucinanti.

Eppure è la realtà dei campi profughi di Lipa in Bosnia.

Gruppi di uomini in fila, senza scarpe, nella neve, che sognano l’Europa, o almeno un posto nel mondo. Foto forti e devastanti, simili a quelle che le televisioni di tutto il mondo trasmettono da giorni e che rimbalzano sui media internazionali e nazionali ma che, inviate sul telefonino da un amico, che con la sua voce strozzata dalle lacrime ti racconta cosa sta osservando e percepisci nella sua frenesia la fretta di chi vuole a tutti i costi fare qualcosa, fanno un effetto incredibilmente diverso.

Un pugno allo stomaco, un senso di vertigine, la desolazione di non riuscire ad essere d’aiuto e l’istinto, primordiale, di avvicinarsi al termosifone e ringraziare Dio di non essere lì.

A qualche grado sotto lo zero, con la neve alle caviglie e nessuna fonte di calore nei paraggi, ci sono volti con gli occhi spenti, con la pelle sporca, con le guance e le mani tagliate dal freddo. Esseri umani immersi nel gelo, senza calze, con giacche a vento che non scaldano abbastanza, con sandali che a malapena vestono piedi che affondano nel fango. Ci sono bambini che sorridono, perché sono talmente piccoli da non conoscere niente di meglio dell’orrore in cui vivono. Bambini che forse avranno un futuro, forse no, che non si sa se mangeranno domani o se, strappandosi il vestitino giocando, avranno qualcosa d’altro da farsi mettere addosso.

“L’inferno a due passi da casa”, dice Maculan, che è partito in missione umanitaria di ricognizione mercoledì, insieme a quattro compagni. Eppure Roberto Maculan è uno di quelli che di orrori ne ha visti tanti, nelle numerose missioni umanitarie a cui ha preso parte o che ha organizzato in prima persona. Burkina Faso, Amatrice, le zone reiette dell’Africa Nera, le bombe, il deserto con il camion rotto, la mancanza d’acqua con 40 gradi all’ombra, le carceri nelle metropoli africane dove il crimine è il pane quotidiano. Eppure la commozione non manca, anzi fa crescere la necessità di fare qualcosa.

Il viaggio di ricognizione di Missionland, che tornerà a breve con più materiale e con le sue cliniche mobili, è iniziato mercoledì. Prima il tampone per la covid, l’esito negativo ed infine il viaggio in camion. Ore estenuanti alla dogana, per far passare quel carico di aiuti che le autorità non vogliono e cercano di bloccare. Proprio la dogana, con la sua burocrazia, è uno dei due ostacoli maggiori. Ma poi ci sono i campi dove risiede la gente, a volte di privati, che non consentono l’accesso ed entrarci è una gara dove ci si imbatte in trattative internazionali, occhiate, fiducia. Il tutto al freddo, senza sicurezza, con la sola speranza di poter davvero fare qualcosa.

La missione di Missionland per ora è un primo step, una fase iniziale per comprendere cosa fare di utile per almeno qualcuno dei tantissimi profughi, che arrivano soprattutto dal Pakistan e dell’Afghanistan. Per capire come far arrivare gli aiuti umanitari, che se non vengono gestiti bene non arriveranno mai a destinazione, bloccati al confine o, peggio ancora, dirottati verso altre destinazioni. Con la gente di Lipa che muore di freddo e di fame. Con i bambini sorridenti che saltellano nel fango e non possono permettersi di strapparsi il vestitino giocando.

Anna Bianchini

Ti è piaciuto questo articolo? Condividilo su:
Stampa questa notizia