“Guerrieri”, “una battaglia che non si vince mai” , ha detto Giovanni Allevi dal palco di Sanremo dove ha rotto il silenzio dopo le forti cure per il mielanoma che lo ha colpito come un fulmine a ciel sereno. Ma accanto a questi termini che hanno subito suscitato attenzione dalle associazioni dei pazienti oncologici, ha anche parlato di “doni” e di “essenziale“. Quella cultura della resistenza e per taluni della resilienza che la malattia sta insegnando alla società. C’è un lessico profondamente mutato negli anni su come chiamare la malattia impronunciabile, quella che nelle case venti anni fa era ‘il brutto male’: innominato, spettrale, dai contorni indefiniti.

“Sento che ho una creatura, un animale dentro”, diceva Oriana Fallaci quando l’ultima battaglia di cui scrivere non era più in Vietnam o nella Guerra del Golfo, ma nel suo esile corpo dove un cancro cresceva indisturbato. L’aveva sentito con una mano e aveva rimandato la visita. L’aveva forse sempre saputo, come una predestinazione, cosi scriveva. Il tumore per Oriana che muore nel 2006 è ‘un bastardo, un alieno, un nemico, è guerra’. “Maledetto bastardo’. Oh, come lo odiavo. Continuavo a insultarlo. Non osare di ritornare, sai. Hai lasciato qualche bambino dentro di me? Ti ucciderò…Ti ucciderò… Tu non vincerai ‘ Quei dottori… non potevano credere ai loro occhi”. Queste le sue parole quando la giornalista volle vedere nell’incredulità dei medici il tumore che le era stato asportato.

Un salto di quasi 20 anni e il cancro metastatico che la sta uccidendo diventa per la scrittrice Michela Murgia, nell’intervista-confessione rilasciata al Corriere della Sera, la “malattia molto gentile” perchè prolifera indisturbata mentre la vita scorre all’apparenza come sempre.

Il cancro è un complice della mia complessità, non un nemico da distruggere. Non posso e non voglio –  dice poco prima di morire – fare guerra al mio corpo, a me stessa. Il tumore è uno dei prezzi che puoi pagare per essere speciale. Non lo chiamerei mai il maledetto, o l’alieno”.

In questo salto nella storia, che è poi una nuova lettura dello stesso concetto di salute e forse di morte, c’è il lavoro instancabile delle associazioni di pazienti che con la loro opera di advocacy hanno cambiato la cultura sulla malattia oncologica: dallo stigma impronunciabile, alla decostruzione della retorica del ‘fiocco rosa’, per il tumore del seno, fino all’ultima rivoluzione della guarigione sancita dalla legge sul diritto all’oblio. 

I pazienti oggi sembrano preferire un’altra narrazione, forse meno eroica ma anche meno colpevolizzante, complice l’ingresso nel percorso di cura della psico-oncologia. E alla valorizzazione emotiva della malattia, basta pensare alla medicina narrativa o alle manifestazioni di sensibilizzazione, gare sportive, teatro terapia, si unisce anche una volontà coraggiosa di smontare la retorica e denominare la malattia per ciò che è: cancro, metastasi, stadio avanzato. Termini che i pazienti oggi utilizzano, padroneggiano e conoscono pienamente. Realismo senza epopea: è lo spirito ad esempio del ‘don’t pink for me’, una narrazione sempre più diffusa nelle associazioni delle donne con tumore del seno: basta fiocchi e ambasciatori in rosa, basta retorica edulcorata del cancro al seno come sempre curabile, quasi come se ne volesse sminuire la gravità. Da una parte il realismo, dall’altra la resilienza.

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