In un’epoca in cui raccontare pubblicamente di aver avuto un tumore viene giustamente accolto con rispetto, solidarietà e affetto, dire “sono depresso” o “sto facendo una terapia dallo psichiatra” spesso significa essere guardati con diffidenza, con un misto di pietà e sospetto. Le malattie mentali – depressione, ansia, disturbo ossessivo-compulsivo, schizofrenia, solo per citarne alcune – continuano ad essere vittime di un pregiudizio antico, duro a morire, alimentato da ignoranza, paura e da una cultura che ancora troppo spesso fatica a riconoscere la sofferenza psichica come una forma reale e legittima di malattia.

Il peso del pregiudizio: la vergogna silenziosa

Chi soffre di depressione non chiede comprensione, ma rispetto. E invece, spesso si trova a dover nascondere la propria condizione per non essere giudicato “debole”, “pigro”, “inadatto”. Il dolore mentale viene ancora interpretato come una carenza di volontà, un problema caratteriale, una mancanza di spirito. Nessuno si sognerebbe di dire a chi ha un’infezione ai reni di “reagire”, ma a un depresso si dice quasi automaticamente: “Devi sforzarti, su, esci, fai qualcosa”. Una frase che pesa come un macigno, perché nella depressione la prima funzione che viene meno è proprio la volontà.

Il pudore nel parlare di ciò che riguarda la mente nasce da un’antica radice culturale, da secoli in cui la malattia mentale era “pazzia”, un marchio, un’onta familiare da tenere nascosta. E se oggi la parola “pazzia” ha perso il suo ruolo nella medicina – sostituita da diagnosi specifiche e trattamenti efficaci – continua a sopravvivere nel linguaggio comune, nelle etichette affrettate, nei sussurri intorno a chi, per esempio, assume psicofarmaci o frequenta un centro di salute mentale.

Il corpo si può ammalare, il cervello no?

Nel sentire collettivo c’è una sorta di scissione irrazionale tra corpo e mente: si accetta con naturalezza che il fegato, i polmoni o il cuore si ammalino. Ma il cervello no. Come se la mente fosse immune, perfetta, impermeabile alla sofferenza. E quando invece si ammala, si pensa subito a qualcosa di pericoloso, ingestibile, “da tenere a distanza”.

Questo meccanismo crea un paradosso doloroso: più una persona ha bisogno di aiuto, più tende a nascondersi. Si isola. Teme il giudizio. Anche le famiglie spesso non parlano, evitano le domande, si chiudono nel silenzio. Lo stigma – questa etichetta invisibile – non colpisce solo chi è malato, ma tutto il suo contesto.

Italia vs Stati Uniti: due mondi approcci diversi

In Italia, andare dallo psichiatra è ancora un tabù. Ammettere di essere in cura è qualcosa che si sussurra, se si ha il coraggio di dirlo. I centri di salute mentale pubblici sono spesso trascurati, non solo nelle risorse, ma anche nella dignità degli spazi: ambienti spogli, arredi vecchi, atmosfere che ricordano più l’abbandono che la cura. Anche il sistema sanitario, come ricorda il professor Andrea Fagiolini, è discriminatorio: a un paziente a rischio suicidio non è riconosciuta la stessa urgenza di chi arriva con un infarto.

Negli Stati Uniti, al contrario, lo psicologo è parte della quotidianità. Come il personal trainer o il nutrizionista. Ci si rivolge allo specialista del benessere mentale senza imbarazzo, con naturalezza, anche in assenza di disturbi gravi. La salute psicologica è vista come parte integrante del benessere generale. Le aziende offrono pacchetti psicologici ai dipendenti, le scuole promuovono programmi di sostegno emotivo, le campagne di sensibilizzazione sono parte della cultura popolare. Le celebrità parlano apertamente delle proprie fragilità mentali, senza paura di essere sminuite. In Italia, invece, anche solo confessare di prendere un antidepressivo può costare un’etichetta che resta incollata addosso per anni.

Il contrario dello stigma è la conoscenza

Come ha detto la neuropsichiatra Paola De Rose, il vero antidoto allo stigma è la conoscenza. Informazione. Educazione. Bisogna spiegare, fin dalle scuole, che il cervello è un organo come gli altri. Che può funzionare male. Che può guarire. Che può trovare equilibrio. E che i disturbi mentali non rendono meno degni, meno capaci, meno umani. Le neuroscienze hanno fatto passi da gigante. Eppure siamo ancora fermi a logiche arcaiche. Ancora a chiederci se chi ha avuto un esaurimento sia una persona affidabile.

Parlare, scrivere, raccontare. Rompere il silenzio. Far sentire meno soli chi lotta ogni giorno con la propria mente. Serve un cambiamento culturale che metta fine a questo doppio standard. Chi va dallo psicologo non è fragile. È coraggioso. Chi chiede aiuto non è da compatire. È da ammirare. E chi giudica la sofferenza mentale senza conoscerla, è colui che va educato.

Solo quando la malattia mentale sarà riconosciuta come una malattia e basta – non come un marchio – potremo dire di essere una società matura, civile, consapevole. Una società dove non ci si vergogna più di dire: “Mi sto curando. E va bene così.”

Natalia Bandiera

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