Paolo non è più tra noi. A 14 anni, stremato da scherni, umiliazioni, moine implacabili che lo tormentavano ogni giorno, ha deciso che non c’era più via d’uscita. Lo chiamavano Paoletta, ma non è tutto. Ha provato a resistere, raccontando ai genitori, forse agli insegnanti, cercando un rifugio. Ma non è bastato.
Il dolore è diventato più forte. Paolo si è tolto la vita, vittima di un bullismo che non è solo un’offesa, non è solo cattiveria casuale: è atroce, sistematico, devastante.Bullismo vuol dire vigilare sulla fragilità umana. Vuol dire riconoscere che l’essere diverso, nel modo di pensare, nel look, nelle paure o nell’abbigliamento, può diventare motivo di esclusione, di scherno continuo. Paolo lo sapeva: non aveva qualcosa da nascondere; era semplicemente sé stesso. Ma le parole, come sassi lancinanti, possono ferire il cuore, erodere la speranza. Quando chi dovrebbe essere un punto di riferimento, genitori, insegnanti, adulti, non interviene, il vuoto diventa ancor più profondo.
La storia di Paolo non è unica: è il pezzetto straziante di un mosaico troppo vasto. Resistono tutti quegli adolescenti che si sentono soli, che pensano: «Se parlo, peggiorerà». E il silenzio diventa una prigione. Il bullismo non è una “fase”, non è un capriccio: è una ferita che può portare alla rottura. È un’emergenza sociale, educativa, morale. Ogni volta che una persona come Paolo soffre, perdiamo qualcosa tutti quanti: un sogno, una speranza, un’anima giovane. Non possiamo delegare la cura solo ai ragazzi. I genitori devono ascoltare, accogliere ogni segnale. Gli insegnanti devono vigilare, intervenire, non chiudere un occhio. Le istituzioni scolastiche devono creare ambienti sicuri. E la società tutta, anche nei piccoli gesti quotidiani, deve promuovere la gentilezza, il rispetto, la solidarietà. Parlare non è un optional. È un dovere. Ogni parola, ogni gesto può cambiare le cose. Qualcuno, come Paolo, ce lo ha dimostrato nel modo più tragico. Questo non può diventare solo un altro articolo. Deve diventare un richiamo, un impegno.
Se sei un ragazzo che soffre, non restare in silenzio. Racconta, grida, chiedi aiuto. Se sei adulto, non ignorare, non minimizzare, non dire “sono cose dei giovani”. I genitori denunciano di aver segnalato tutto alla scuola molte volte, ma di essere rimasti inascoltati. Hanno raccontato anche che, già in quinta elementare, avevano dovuto presentare una denuncia ai carabinieri per episodi di bullismo, perfino per minacce con coltelli. In una di quelle occasioni, dicono, una maestra anziché fermare la situazione avrebbe detto: “Rissa, rissa”, incitando i bambini. Quei momenti, quei segnali, sono stati ignorati. Dopo la sua morte, la Procura di Cassino ha aperto un’indagine per istigazione al suicidio, ha sequestrato i dispositivi mobili di Paolo per capire meglio i messaggi che riceveva e le relazioni che aveva con i compagni. Il ministro dell’Istruzione ha ordinato ispezioni nelle scuole che Paolo ha frequentato. Vogliono verificare se la normativa sul bullismo , che impone ai dirigenti scolastici di intervenire subito, di convocare le famiglie, di segnalare nei casi gravi, sia stata rispettata.
I genitori hanno fatto un appello forte, pubblico: chiedono che la verità emerga completamente, che non si occultino responsabilità, che si comprenda fino in fondo cosa abbia fatto sentire Paolo così isolato da non vedere altra via. Chiedono che il sistema scolastico, le istituzioni, le autorità educative e giudiziarie agiscano perché casi come il suo non restino impuniti, perché nessun ragazzo debba più sentirsi così solo. Paolo amava la musica, suonare strumenti, andava a pescare col padre, cucinare, aiutare in casa. Amava pure difendere i più deboli. Eppure, proprio per questo era diventato un bersaglio costante. Ogni giorno un peso, ogni giorno una nuova ferita. La notte prima della tragedia ha preparato pane e biscotti, come un gesto semplice di normalità, ma che per lui già pesava come un’ancora. Non possiamo più rimandare. Il silenzio davanti al bullismo è complicità. Ogni volta che ignoriamo, ogni volta che diciamo “sono cose da ragazzi”, rischiamo di perdere un’anima giovane come Paolo. Non basta esserci con le parole: servono fatti concreti, interventi tempestivi, responsabilità chiare. La vita di ogni persona è sacra. Anche quella di Paolo lo era. E lo è ancora, nel ricordo, nell’amore che nessuno potrà cancellare. Paolo se n’è andato.
Ma la sua storia resti luce: perché cambiare è possibile, se ci mettiamo insieme con coraggio, con empatia, con amore. Senza minimizzare perchè il bullismo uccide e Paolo è solo l’ultima vittima.
Valentina Ruzza
