Il 2 maggio 1945, 73 anni fa, terminò il massacro passato alla storia come ‘eccidio di Pedescala‘.
Fra il 30 aprile e il 2 maggio, in val d’Astico, più precisamente nei comuni di Pedescala, Settecà e Forni, si è consumata una violenta strage perpetrata dai soldati dell’esercito tedesco verso la popolazione locale. 82 i morti, in prevalenza civili (63 a Pedescala e 19 tra Forni e Settecà).
Un massacro sul quale, la storica Sonia Residori, nel volume ‘L’ultima valle’ ha fatto chiarezza, rifuggendo da interpretazioni ideologiche.
Mancavano pochi giorni al termine del secondo conflitto mondiale. Si ricorda infatti che la fine della guerra non fu il 25 aprile 1945. Quello fu il giorno dell’insorgenza del Clnai (Comitato di liberazione nazionale Alta Italia) e della liberazione di Milano. Per la liberazione di altre città, come Piacenza e Vicenza, bisognerà aspettare il 28 aprile. Il giorno successivo, nell’accordo di Caserta, l’esercito tedesco firmò la resa, anche se, durante la ritirata, non si risparmiò uccisioni di civili e violenze di vario genere. L’ordine di cessare il fuoco per le truppe tedesche entrò in vigore il 2 maggio 1945 alle 14 e poche ore prima ebbe termine la strage di Pedescala.
Come scrive Sonia Residori, le indagini sui fatti di Pedescala sono state riaperte dalla magistratura militare di Padova successivamente a due esposti presentati uno il 29 luglio e l‘altro il 25 novembre 1988 da Giuseppe Stenghele, che aveva perso il padre nella strage.
La storia
Nel pomeriggio del 28 aprile (giorno della liberazione di Vicenza), a Settecà giungono quattro uomini, agenti dei servizi segreti tedeschi (BdS-SD). Tre di essi indossano la divisa SS (Schutz-Staffel). Questi uomini vengono catturati da un gruppo di partigiani della brigata garibaldina Garemi. Due di essi rimangono in ostaggio dei partigiani (l’austriaco Anton Deutsch e l’italiano Silvio Varotto), mentre gli altri due riescono a fuggire.
Il 29 aprile a Pedescala sono presenti soldati di un reparto di polizia delle SS specializzato nella repressione antipartigiana composto da volontari provenienti dall’Europa orientale (Ost-Bataillon 263) e delle truppe russe. Entrambi abbandonano il paese tra la notte del 29 e la mattina del 30 aprile, giorno in cui, a Pedescala, rimane un numero esiguo di russi e tedeschi.
“Appena partite le truppe – racconta Sonia Residori – un gruppo composto dai partigiani Walter, Giobe, Franz e alcuni civili penetrarono nelle abitazioni, aiutandosi in alcuni casi con scale, e catturarono una ventina di soldati che stavano dormendo nelle case occupate e nell’asilo del paese. Tutti furono disarmati ed il materiale bellico catturato. (…) I soldati tedeschi catturati erano per lo più paracadutisti del 10° e 11° reggimento della 4° Divisione”.
I partigiani hanno nascosto i soldati catturati nel bunker del paese, ovvero il bunker utilizzato dalla brigata Pasubiana.
Alle 8 del mattino, durante la messa celebrata dal parroco del paese don Fortunato Carlassare, alcuni civili, tra cui bambini, raccolgono le armi che le truppe russe avevano abbandonato a Pedescala durante la ritirata.
Poche ore dopo, verso le 10, un piccolo gruppo di partigiani si scontra con alcuni soldati tedeschi.
Da quel momento partigiani e civili, servendosi delle armi prelevate un paio d’ore prima, si preparano alla difesa di Pedescala e paesi limitrofi. Alle 11 l’incubo.
I tedeschi arrivano a Pedescala
Sull‘invasione nazista del 30 aprile 1945 ci sono testimoni oculari, tra cui Gioachino Marzarotto e Augusto Sella, che hanno raccontato: “Le truppe tedesche avevano accerchiato il paese dividendosi in due gruppi. (…) Si aprono la strada anche con uno o più carri armati. Il carro armato passa per le vie del paese, incendiando le case con il lanciafiamme e gettando bombe a mano. Contemporaneamente i nazifascisti penetrano nelle case, costringono i vivi a gettare i cadaveri sul fuoco e subito uccidono anche quelli”.
A Pedescala i soldati tedeschi incendiano anche alcune stalle, con dentro animali e l’asilo infantile e anche don Carlassare rimane ucciso.
Camillo Pretto, che a quel tempo aveva otto anni, parla di “morti distesi per terra in mezzo a pozzette di sangue”. 82 in tutto i morti di Pedescala.
Fatti analoghi accadono nello stesso momento neidue comuni limitrofi di Settecà e Forni, in cui le vittime della barbarie nazifascista sono 19. A Forni i tedeschi prendono in ostaggio 62 persone. Un testimone oculare di nome Giovanni Battista Dellai raccontò: “Li vedevo passare in piccoli gruppi questi poveri uomini scortati dai tedeschi con un comando secco e autoritario, tutti li uomini li portano al locale dopolavoro dai 60 70 sono rinchiusi visti d’occhio dalla S.S. tedeschi”.
Secondo un documento della Croce Rossa internazionale, l‘1 maggio alcuni partigiani rapiscono 18 tedeschi della Wehrmacht in ritirata, li uccidono e li gettano nella ‘Caverna della Rossetta’ (una specie di foiba vicino a Tonezza).
I soldati tedeschi, il giorno seguente si danno a furti e saccheggi nelle case e rimangono tra Pedescala, Forni e Settecà fino alla mattina del 2 maggio. Entro le 9 della mattina non ce n’è più nessuno.
Il rifiuto della Medaglia e lo ‘schiaffo’ a Pertini
Come spiega Sonia Residori, nel 1983 una parte della popolazione rifiutò la medaglia d’argento al valore militare che l’allora presidente della Repubblica, Sandro Pertini, proponeva. Il rifiuto fu motivato così: “Spararono poi sparirono sui monti (riferendosi ai partigiani), dopo averci aizzato contro la rabbia dei tedeschi, ci lasciarono inermi a subire le conseguenze della loro sconsiderata azione. Per tre giorni non si mossero, guardando le case e le persone bruciare. Con quale coraggio oggi proclamano di aver difeso i nostri cari?”
Il racconto dell’eccidio di Pedescala non ha avuto una sola versione, di versioni se ne sono sentite e lette diverse, descritte a seconda delle posizioni politiche.
Il ‘Comitato permanente vittime civili di Pedemonte’ attribuiva la colpa del massacro ai partigiani perché essi spararono sui tedeschi in ritirata.
Federico Bonato