Colpita al cuore l’economia della canapa industriale: vietata l’infiorescenza, “salvati” solo semi e fibra. A rischio cento aziende venete e un indotto da 75 milioni di euro l’anno.

Insomma, un intero settore produttivo rischia di sparire in silenzio. Con l’approvazione del nuovo Decreto Sicurezza, il governo ha tracciato un solco netto tra ciò che è considerato legale e ciò che non lo è più nella filiera della canapa. A farne le spese è soprattutto il comparto delle infiorescenze, fino a ieri pilastro economico per decine di aziende agricole, artigianali e commerciali in Veneto. Ora, chi non ha chiuso o lasciato a casa i dipendenti, guarda oltre confine. La Francia e la Repubblica Ceca diventano mete per delocalizzare attività che in Italia non possono più essere svolte legalmente.

Infiorescenza vietata: un colpo mortale

Il decreto ha vietato espressamente la coltivazione, la lavorazione e la commercializzazione dell’infiorescenza della canapa, anche in forma essiccata o triturata, così come oli, estratti e resine. È invece consentita la coltivazione per uso florovivaistico professionale e il trattamento di semi e fibra. Ma è poco, troppo poco, per tenere in vita la rete produttiva veneta.

«Con questo provvedimento abbiamo perso il 90% della nostra operatività», denuncia Myall Lawrence, titolare dell’azienda agricola Agroselectiva e segretario dell’associazione Imprenditori Canapa Italia sulle pagine del Corriere del Veneto. La sua impresa, con sede nel Veneziano, ha già dovuto rinunciare a due collaboratori. “Ora diventeremo una sorta di serra per chi opera all’estero – spiega –, spediremo piante a uso seme e fibra oltre confine, senza trasformazione. Il fiore, però, si produce comunque: è impossibile evitarlo completamente, e il rischio di infrazione è concreto».

Un comparto ridotto ai minimi termini

In Veneto sono un centinaio le aziende coinvolte, attive su circa 65 ettari di superficie coltivata. Producevano infiorescenze per usi cosmetici, alimentari, bioedilizia, tessili, e persino per la produzione di birra artigianale. Un sistema capillare, spesso artigianale, che non può reggere se costretto a puntare esclusivamente su semi e fibra. “La redditività del seme è minima – spiega Lawrence –. Solo le grandi aziende o le multinazionali possono reggere con coltivazioni estese. Per noi piccoli produttori è la fine”.

Davanti a uno scenario così critico, le strade sono tre: chiudere, delocalizzare o resistere. Alcuni imprenditori stanno valutando la disobbedienza civile, continuando l’attività in attesa di eventuali modifiche legislative o di un pronunciamento da parte dell’Unione Europea. Altri si stanno già organizzando per esportare know-how, semi e piante verso Paesi in cui le normative sono meno restrittive.

In gioco non ci sono solo le singole imprese, ma un indotto che in Veneto vale circa 75 milioni di euro all’anno. Un settore che stava crescendo, innovando e creando occupazione, ora paralizzato da una norma che ne riduce drasticamente le possibilità. Le aziende aspettano risposte, mentre l’Europa è chiamata a esprimersi sulla legittimità della normativa italiana, che di fatto mette fuori legge una buona parte della filiera della canapa.

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