In Veneto “si continua ad alimentare una narrazione distorta della realtà, in cui si racconta di un’invasione incontrollata e capillare di migranti. Non è così”, afferma ilvana Fanelli, della segreteria regionale della Cgil del Veneto. I cittadini stranieri residenti in regione, secondo gli ultimi dati disponibili, sono poco più di 500.000, il 10,3% della popolazione totale. Un dato che negli ultimi 10 anni è rimasto pressocché stabile e che mette il Veneto al quarto posto a livello nazionale per numero di residenti stranieri (e al sesto posto per incidenza sulla popolazione regionale). Di questi 500.000, circa 336.000 hanno un permesso di soggiorno di lungo periodo. “Altro dato che demolisce la narrazione mistificatoria è che l’acquisizione della cittadinanza ha un tasso di poco più del 5%”, aggiunge la Cgil. Sempre a livello regionale, gli alunni con cittadinanza non italiana sono circa il 15%. Di questi, il 70% è nato in Italia. Il sindacato parte da questi dati per contestare il decreto flussi: dovrebbe essere la modalità d’ingresso regolare in Italia, ma “continua a dimostrare tutte le sue criticità e la sua inefficacia, con un tasso di successo molto basso anche in Veneto. Il meccanismo del click day non solo costringe chi intende venire a lavorare in Italia a pagare migliaia di euro intermediari che spesso fanno parte della criminalità organizzata, ma non dà nemmeno risposte alle imprese che cercano personale. E alla fine di tutte le procedure, il numero di lavoratrici e lavoratori che riescono a chiudere l’iter e ottenere il permesso di soggiorno continua ad essere drammaticamente esiguo, tanto da non raggiungere le quote d’ingresso previste per il 2025 per il lavoro stagionale turistico ed agricolo, mentre per l’assistenza familiare si è invece in presenza di un dato che va oltre la quota”.

Applicando la modalità del decreto flussi “si continua a negare la necessità di una riforma strutturale che parta da un’analisi concreta della situazione migratoria in Italia, e nel Veneto, e del mondo del lavoro. Una riforma che dovrebbe partire non da politiche restrittive e punitive, controproducenti per lavoratori e imprese, ma da politiche di inclusione e di contrasto all’illegalità e allo sfruttamento. Alla base di questa riforma- aggiunge Fanelli- non può che esserci l’abolizione della legge Bossi-Fini, che è la radice dei tanti fenomeni di sfruttamento, irregolarità e invisibilità delle persone che arrivano nel nostro Paese per lavorare”.

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