Chi frequenta il Giappone lo sa: è probabilmente il luogo fuori dall’Italia dove oggi si mangia la migliore cucina italiana. Da decenni giovani cuochi nipponici arrivano nelle nostre cucine per apprendere tecnica, rigore e rispetto della materia prima, per poi tornare a casa e aprire ristoranti impeccabili. La storia di AJI, però, nasce nel senso opposto. Ed è, per molti versi, ancora più sorprendente.

L’origine del progetto va cercata nel momento in cui Giulio Grotto, giovane cuoco vicentino, capisce che la cucina è più di un mestiere: è il linguaggio attraverso cui raccontarsi. La svolta arriva quando decide di abbandonare i ritmi dei ristoranti per lavorare in un food truck. Un passaggio in apparenza minore, che si rivela invece liberatorio: panini dal cuore nippo-veneto, contatto diretto con il pubblico, spazio per sperimentare. È lì che comprende che cucinare, per lui, è un atto identitario.

Il percorso però è tutt’altro che lineare. Da ragazzo invia oltre trecento curriculum a ristoranti stellati italiani, quasi sempre senza risposta. Una lunga attesa che diventa esercizio di pazienza e tenacia. La prima svolta arriva con il Ristorante L’800 ad Argelato, poi con il Dolada di Pieve d’Alpago. Ed è qui che incontra un cuoco giapponese che gli cambia la prospettiva. Quella curiosità diventa presto una direzione: Giulio parte per il Giappone, accolto nelle cucine di chef conosciuti in Italia.

L’impatto è netto: rigore e poesia convivono, la tecnica non è un fine ma un mezzo. Ogni gesto ha un significato, ogni ingrediente è trattato con gratitudine. Le giornate sono estenuanti, 14 o 16 ore senza sosta, ma determinanti per formare disciplina, attenzione e presenza mentale. «Anche servire un brodo può essere perfetto, se fatto con consapevolezza», ricorda oggi.

Il ritorno a Schio nasce dal bisogno di ritrovare casa e di portare ciò che aveva appreso in un territorio che gli somiglia. Qui la storia si intreccia con quella di Francesca, legata al Giappone ancor prima di lui. I suoi viaggi, la ricerca di artigiani e artisti nipponici, il negozio di artigianato: un percorso parallelo che rende naturale, quasi inevitabile, la nascita di AJI.

E il concept è chiaro sin dal primo giorno. «Come mai non proponete il sushi?» «Perché non siamo in Italia», risponde Giulio. Non è una provocazione: in Giappone ogni ristorante serio è specializzato. AJI segue la stessa filosofia. Al centro c’è il ramen – autentico, rigoroso – affiancato da pochi piatti coerenti. Chi cerca sushi a basso costo deve guardare altrove: AJI propone un’esperienza culturale, non una moda.

Il locale è essenziale, senza folklore, con una parte dedicata all’artigianato giapponese e una alla degustazione di sakè. In tavola, l’antipasto misto apre il percorso: kakuni, goma wakame, ajitama, accompagnati da un daiginjo elegante. I gyoza spiccano per equilibrio; la tamagoyaki fredda rivela tecnica pura. Unica nota da rivedere: l’accompagnamento dell’ebifry, impeccabile nella panatura. Il ramen tonkotsu è il piatto-manifesto: brodo denso, noodles precisi, chashu esemplare. Un incontro perfetto tra formazione italiana e disciplina giapponese. Uno dei migliori ramen d’Italia.

Ma AJI non è solo cucina. È un ponte culturale. Lo ha riconosciuto anche il Comune di Schio, premiando Giulio e Francesca come “ambasciatori della cultura e dell’artigianato giapponese”. Un titolo che racconta un luogo dove l’Alto Vicentino incontra il Giappone senza imitazioni: le risaie e le colline venete unite dallo stesso rispetto per la terra e per il tempo del lavoro.

Quando, a fine servizio, la sala si svuota e la porta si richiude, Giulio e Francesca si scambiano pochi commenti e uno sguardo di gratitudine. È la conferma di aver seminato bene, con verità. La stessa verità che, giorno dopo giorno, continua a dare forma alla cucina di AJI.

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