Il secondo appuntamento della 37^ Stagione di Prosa Thiene è con Lacci di Domenico Starnone con Silvio Orlando e la regia di Armando Pugliese in scena martedì 22 e repliche mercoledì 23 e giovedì 24 novembre al Teatro Comunale con inizio alle 20.45.

L’ultima volta che Thiene ha applaudito Silvio Orlando è stato con la commedia Il Dio della carneficina nella Stagione di Prosa 2008/09.
Con Lacci è ancora una volta protagonista di una storia emozionante e fortissima. Il racconto magistrale di una fuga, di un ritorno, di tutti i fallimenti, quelli che sembrano insuperabili e quelli che fanno compagnia per una vita intera e che fanno sentire il rumore profondo di un matrimonio che si spezza.

«Abbiamo imparato entrambi che per vivere insieme dobbiamo dirci molto meno di quanto ci nascondiamo».

Dopo il grande successo de La scuola, riportato in scena, a un trentennio dall’esordio, due anni fa e tuttora in tournée, Silvio Orlando con il nuovo spettacolo Lacci ritorna alla scrittura di Domenico Starnone e penetra da un’altra porta le crepe e le fragilità del mondo in cui viviamo: prima visto attraverso il microcosmo dell’educazione, questa volta attraverso il sistema della famiglia, dove cova ogni giorno la minaccia di crollo per un cosmo ben più grande di quello racchiuso tra le mura di casa. La storia infatti ripercorre le attese, le sconfitte, i ripensamenti interni ad un amore e alle sue conseguenze, e porta già nei nomi una promessa di rovina. Quello che dovrebbe tenere è in pezzi e la caduta porta via a fette grosse il sogno. La violenza interna, come nella tragedia antica, contiene già i semi di più estese guerre e incomprensioni. Una tragedia contemporanea, quasi, mascherata da commedia. «Se tu te ne sei scordato, egregio signore, te lo ricordo io: sono tua moglie». Si apre infatti così, con parole definitive, la lettera che Vanda scrive al marito che se n’è andato di casa, lasciandola in preda a una tempesta di rabbia impotente e a domande che non trovano risposta. Si sono sposati giovani all’inizio degli anni Sessanta, per desiderio di indipendenza, ma poi attorno a loro il mondo è cambiato, e ritrovarsi a trent’anni con una famiglia a carico è diventato un segno di arretratezza più che di autonomia. Perciò adesso lui se ne sta a Roma, innamorato della grazia lieve di una sconosciuta con cui i giorni sono sempre gioiosi, e lei a Napoli con i figli, a misurare l’estensione del silenzio e il crescere dell’estraneità. Che cosa siamo disposti a sacrificare, pur di non sentirci in trappola? E che cosa perdiamo, quando scegliamo di tornare sui nostri passi? Perché niente è più radicale dell’abbandono, ma niente è più tenace di quei lacci invisibili che legano le persone le une alle altre. E a volte basta un gesto minimo per far riaffiorare quello che abbiamo provato a mettere da parte. Domenico Starnone ci regala una storia emozionante e fortissima, il racconto magistrale di una fuga, di un ritorno, di tutti i fallimenti, quelli che ci sembrano insuperabili e quelli che ci fanno compagnia per una vita intera.
NOTE DI REGIA

Nell’apprendere dell’allestimento di uno spettacolo teatrale tratto dal romanzo di Starnone, molti fra quelli che lo hanno letto, si sono domandati quale sarebbe stato il processo drammaturgico prima e la sua messa in scena di conseguenza.
La versione teatrale del romanzo è stata fatta, come si sa, da Starnone stesso, ben sapendo che la concentrazione e l’assimilazione della lettura di un romanzo consentono un tempo assai differente da quello della fruizione teatrale.
E molte sono state anche le riflessioni comuni circa gli ostacoli da superare per condurre la parola degli interpreti, espressa nella forma vuoi del racconto, vuoi addirittura in forma epistolare, ad una parola agita attraverso la sequenza dei punti di osservazione dei personaggi, dei loro differenti linguaggi verbali ed emotivi.

Ho pensato dunque a questo lavoro come all’esecuzione di una sinfonia, che si struttura in cinque movimenti, che a loro volta contengono al loro interno un variabile numero di variazioni. E il contenuto del romanzo mi ha suggerito l’idea di una sinfonia del dolore, del dolore perché questa storia ci parla di un carico di sofferenza che da una generazione si proietta su quella successiva con il suo bagaglio di errori, infingimenti, viltà, abbandoni, dolore appunto. Proprio perché ci muoviamo in ambito borghese, non si tratta di una tragedia generazionale, ma di un dramma generazionale, quello sì.
I figli si affacciano a presentare il conto a chi li ha preceduti, all’interno di un contesto familiare in questo caso, ma metafora di quanto accade in contesti estremamente più ampi nel tempo e nel mondo che viviamo oggi.
Ma anche nelle ragioni o nei torti dei genitori lo spettatore non mancherà di identificarsi, nelle loro ferite che cogliamo pulsanti nel momento della lacerazione, o ripercorse a ritroso attraverso il racconto che si fa tentativo di comprensione logica e critica, con l’intento di andare oltre i significati superficiali di parole abusate.
Con lo snodarsi del racconto lo spettatore dovrà cercare la verità o la ragione di volta in volta in ciascuno dei personaggi, nell’interpretazione di ciascuno dei loro vissuti, e nella dialettica attraverso la quale si relazionano fra loro, proprio come nelle storie che catturano l’attenzione e non ci consentono di lasciarle fino al loro punto di conclusione.

Armando Pugliese

Ti è piaciuto questo articolo? Condividilo su:
Stampa questa notizia