“Dante insegna a riorganizzarsi la vita. È una persona che ci offre sia un insegnamento teorico-simbolico che una testimonianza pratica di come si possa entrare nelle sventure dell’esistenza e fare di queste un momento di profonda trasformazione interiore”. Claudio Widmann, analista junghiano riassume cosi’ l’insegnamento che oggi, a 700 anni dalla sua morte e nel pieno di una pandemia, l’umanita’ puo’ trarre dall’esperienza e dall’opera letteraria di Dante.

“Nel 1.300- ricorda l’esperto- Dante e’ all’apice della carriera, e’ priore di Firenze, ammirato e stimato da tutti, viene mandato come ambasciatore presso lo Stato pontificio. Soltanto due anni dopo e’ condannato a morte. Perde tutto, prima i contatti con la famiglia, poi tutti i suoi beni, non tornera’ mai piu’ a Firenze. Di questa sua esperienza egli fa la base su cui fondare il suo progetto esistenziale, elaborando in forma simbolica questo evento, e comporre quel monumento poetico che conosciamo tutti come Divina Commedia”. Quando vive l’esperienza dell’esilio, Dante e’ a meta’ della propria vita. È un momento cruciale nell’esistenza di ciascun essere umano e che si rivela determinante anche per un altro personaggio storico, Carl Gustav Jung. “Entrambi, ‘nel mezzo del cammin di nostra vita’ per citare Dante, verso i 35-37 anni- spiega Widmann- vivono una profonda crisi esistenziale che e’ la crisi del ‘giro di boa’, del passaggio dalla ‘psicologia del mattino’ alla ‘psicologia del pomeriggio’, dove tutto cio’ che si e’ costruito nella prima parte della vita o non serve piu’ o deve essere riutilizzato in maniera radicalmente diversa da come lo si era immaginato. Jung conosce la separazione da Freud, lascia il primariato al Burghölzli e anche l’insegnamento presso il Politecnico di Zurigo e si reinventa l’esistenza, inventando contemporaneamente la psicologia analitica. Dante- aggiunge l’esperto- vive questa profonda crisi dell’esilio e mette a frutto le proprie conoscenze per reinventarsi l’esistenza, inventando una cosa nuova. Non dimentichiamo infatti che Dante non solo scrive la Divina Commedia, ma inventa un nuovo genere di poetica”.

Cio’ che accomuna questi due personaggi “e’ la capacita’ di non vivere gli eventi della vita solo da un punto di vista concreto e pratico, ma di viverli dal punto di vista simbolico, spostando sul piano archetipico gli accadimenti contingenti che attraversano”. Cosi’ “Dante, pur nello struggimento nostalgico per la sua citta’, pur sperando fino all’ultimo di farvi ritorno, sposta sul piano simbolico la sua dimensione di esule, narrando e vivendo un esilio esemplare, che non e’ semplicemente la cacciata da Firenze ma e’ l’esilio dell’io espulso da certe modalita’ di vita, reso inabile a impostare l’esistenza cosi’ come aveva progettato di fare. Jung- continua lo psicoanalista- fa la stessa cosa spostando quella che avrebbe potuto essere una semplice divergenza di opinioni da Freud, quello che avrebbe potuto essere un semplice spostamento dell’attivita’ clinica dall’ospedale alla libera professione, su un piano simbolico, con una rielaborazione molto creativa della propria esistenza sul piano sia concettuale che della concezione dell’uomo”.

Il Sommo poeta e il fondatore della psicologia analitica “sono sicuramente figure eccezionali e simili tra loro, legati da un filo sotterraneo a 700 anni di distanza. Non per nulla abbiamo voluto accostarli nel convegno intitolato ‘Dante e Jung: una relazione a distanza’, promosso dall’Icsat e che si terra’ il 30 e il 1 maggio prossimi in modalita’ online. Ma questa loro esperienza- osserva Widmann riportando le sue considerazioni su un piano attuale- e’ anche un modello al quale possiamo ispirarci noi che siamo persone molto piu’ comuni. Perche’ anche noi stiamo vivendo una profonda crisi, un rivolgimento dei tempi, anche noi siamo entrati in un tunnel dal quale siamo convinti che usciremo, ma sicuramente non ne usciremo esattamente come prima. E anche noi, dunque, siamo chiamati a immaginarci un modello di vita e di identita’ diverso da quello che abbiamo immaginato fino a ieri. Anche noi- conclude lo studioso- dobbiamo decidere se affrontare la questione solo su un piano operativo o se riformulare noi stessi e immaginare un modo diverso di fare, ma soprattutto di esistere”.

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