Dietro le parole di Roberta Manzardo si percepisce la forza di una donna che ha attraversato la malattia, la perdita e il dolore, trasformandoli in consapevolezza e vita. Il suo primo libro, dedicato alla madre e a quel male che ha tentato di strapparle la dignità, non nasce da un’ispirazione letteraria, ma da un’urgenza emotiva: quella di guarire scrivendo. Con sincerità disarmante, Roberta Manzardo ex imprenditrice con una parentesi come assessore al Sociale al Comune di Thiene, racconta un percorso interiore fatto di promesse a sé stessa, di gratitudine verso i genitori e di un amore filiale che ancora oggi la sostiene. Un dialogo autentico sul valore della fragilità, sull’importanza dell’empatia e sulla potenza salvifica della parola.

Roberta Manzardo, Quanto è costato in termini di emozioni e sentimenti questo primo libro dedicato alla mamma e a quella malattia che ha cercato toglierle la dignità di vivere? Perché è nata questa ispirazione di diventare scrittrice?

Mi è costato molto, ma è stato salutare. Tirare fuori determinati vissuti è stato come intraprendere un percorso di psicoterapia (quello con i professionisti del settore lo avevo fatto molti anni prima). Un viaggio dentro quella bambina, per ritrovare lo spazio nel mondo di questa donna. Nessuna ispirazione, e non oso definirmi una scrittrice. Avere la voglia di buttare sulla carta alcuni vissuti, non mi rende tale. La via epistolare è sempre stata quella a me più congeniale per comunicare. Sin da piccola, ma anche da grande. Il modo per esprimere amore, rancore e, spesso, per chiedere “scusa”.

Quell’esperienza drammatica della malattia, durata mesi e vissuta con la costante paura di morire, le fece comprendere quanto sia stato importante per Lei, trovare medici ed infermieri, empatici e preparati, che l’hanno seguita amorevolmente con le cure per salvarle la vita. Sin da allora, ha imparato ad apprezzare molto di più la vita?

Avevo promesso a quella bambina che non mi sarei mai più lamentata. Se fossi sopravvissuta, avrei cercato di dare a tutto il giusto peso. Ovviamente, questa promessa a me stessa non è stata sempre mantenuta. Le assicuro però che, quando sento alcuni lamentarsi per cose davvero da poco, mi viene voglia di urlare: “Siete sani? Ringraziate e guardate avanti, o magari indietro. Perché persone che stanno davvero male ce ne sono parecchie!

Sono 14 anni che ha perduto la mamma e 6 il papà. Eppure, come ha evidenziato nella sua prefazione del libro, non avverte solo il dolore della loro perdita, ma la gratitudine per tutto ciò che le hanno lasciato. Come li ricorda i suoi genitori, ma soprattutto quali sono stati i valori che le hanno trasmesso?

Mia madre era una donna estremamente generosa e gentile. Mi crede, se le dico che non ricordo di aver mai sentito uscire da quella bocca un pettegolezzo? Dura nell’educarci, le bastava uno sguardo. Con me non ha mai alzato la voce: non serviva. Una donna sensibile, provata dalla vita, e una mamma felice delle sue figlie. Lei ci amava veramente tanto. Io sto vivendo di rendita ancora oggi, e nei momenti bui è nel ricordo di quell’amore che mi rifugio. Il papà era un grande lavoratore, difficile ricordare carezze. Da lui ho imparato a non essere mai stanca di darmi da fare, nemmeno quando in realtà sono stanchissima. Lavorando ci ha permesso delle belle vacanze al mare. Questo ha compensato anche la poca presenza. Un uomo onesto, serio. Ha cambiato un’infinità di lavori senza mai perdere la speranza di farcela. Doveva mantenere la sua famiglia. E questo è amore.

Quale la cosa più importante che ha imparato da questa, immagino, dolorosa esperienza della malattia?

Ho imparato che, aiutando, ci si aiuta. Ho aiutato tanto sin da piccola. L’ho fatto per me: se potevo aiutare, ero sana. Se ero sana, non sarei morta. Da grande ho sempre avuto qualche ruolo “sociale”, e molti mi dicevano che ero brava. In realtà, chi aiuta lo fa, prima di tutto, per sé.

Concentrare l’attenzione sulla vita della mamma è stato un modo per ricordarla al meglio raccontando il suo atteggiamento verso la malattia. All’inizio c’è stato un rifiuto totale della malattia e tutto sommato voleva far uscire dal cono d’ombra tutto il suo dolore, ma voleva che la storia di sua madre potesse aiutarla in qualche modo. E’ stato così?

Ci ho messo tanti anni a metabolizzare. Ma, soprattutto, a tornare a fare pace con quel cancro che aveva ucciso mia mamma in pochi giorni. Il libro non doveva nemmeno essere pubblicato, mi creda: non mi sentivo pronta, nonostante due cari amici mi avessero spronata a farlo. Avevo bisogno di una spinta in più. L’incontro con la Fondazione Unipancreas Onlus è stato decisivo. Avevo trovato il coraggio di parlare di questa malattia e di impegnarmi per divulgare, anche tramite il mio libro, il lavoro di questa fondazione è stata la spinta che mi mancava. In fondo, questi bravissimi specialisti si adoperano affinché ai pazienti venga concessa quella speranza che mia madre non ha avuto. Praticamente la mia mamma mi aveva incoraggiata, di nuovo.

Scrivere questo libro Le ha permesso, anche meglio, di fermarmi e riflettere sulle cose importanti. Quando sei presa troppo dalla frenesia, dai tempi del lavoro ti dimentichi che ci sono cose importanti per cui vale sempre la pena di fermarsi. E’ d’accordo su questa riflessione?

Ho pensato che avrei potuto esternare il mio pensiero su temi come l’amicizia, l’emarginazione, la terza età, la mancanza di empatia, e sui giudizi e pregiudizi. Ho parlato di amicizie che salvano e di incontri che hanno forgiato la donna che sono diventata.

Eppoi ha sempre desiderato fare cose nuove, di imparare. Le sfide sono importanti, bisogna sempre cercare stimoli nuovi altrimenti la vita può sembrare meno ricca, anche di sorprese. Lei è ancora molto attiva nel sociale, riuscendo ad aprire nel 1999 anche un poliambulatorio. Che esperienza è stata?

Meravigliosa! La mia impresa – il Centro Medico Thienese – è stata, per quasi 22 anni, la mia vita, la mia famiglia. Ero innamorata del mio lavoro, dei miei clienti, che per me erano sempre pazienti e persone da consolare, da accudire prima di affidarli ai professionisti. Avevo imparato a 11 anni – da paziente – che sono sempre le persone a fare la differenza, qualunque sia il lavoro che uno sceglie di fare. Io, nel mio piccolo, ho sempre cercato di portare nel mio lavoro anche quel cuore di bambina impaurita: la bimba che consolava la mamma e che parlava con tutti gli ammalati, per sentirsi sana. Ho cercato di insegnare anche alle mie segretarie che le persone che entravano da noi, se ci avevano scelti, è perché erano in difficoltà e sicuramente preoccupate per la visita che dovevano affrontare. Essere empatici e gentili era necessario. Lo è sempre, ma soprattutto se dall’altra parte ci sono persone che non stanno bene. Le difficoltà nel fare impresa, come ho ben descritto nel mio libro, non sono di certo mancate, così come le notti insonni. Ma il bilancio mi porta a dire che ho ricevuto molto più di quanto ho dato. Non mi chieda se il mio lavoro mi manca, perché oggi non vorrei piangere.

F.C.

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