In questi giorni Ashalata Baidya, consigliere personale del Primo Ministro del Bangladesh, è stata ricevuta nella sala consiliare del Municipio, accompagnata una delegazione del governo bangladese e dal suo staff locale, composto da alcuni membri della comunità bangladese di Schio.

Ashalata Baidya, che nel 2005 è stata tra le 1000 donne proposte per il premio Nobel per la Pace, sta visitando il Veneto per conoscere le aziende e le competenze presenti sul nostro territorio: il governo del Bangladesh ha infatti in programma di investire in questa area, a livello strutturale ed infrastrutturale. Per conoscere direttamente la nostra realtà economico-produttiva è stato dunque organizzato un incontro con le aziende locali per il 12 novembre presso la sede di Confindustria – Raggruppamento Schio -Thiene, in via Lago di Lugano  21 a Schio, nel cuore della zona industriale.

“È stato un incontro prima di tutto di grande calore umano e sincera amicizia” dichiara il Sindaco Valter Orsi “e l’occasione per conoscere reciprocamente le rispettive realtà. Abbiamo offerto a Ashalata la nostra collaborazione e ci siamo messi a disposizione come città per concorrere al raggiungimento degli obiettivi che il suo Paese si pone. Ritengo che coinvolgere gli imprenditori locali e le eccellenze che contraddistinguono il territorio sia un’occasione per valorizzare le tante competenze che esso esprime creando una rete di proficui rapporti con altri Paesi.”

Al termine della visita in Veneto, Ashalata Baidya si sposterà in Francia e in Germania.

La storia di Ashalata Baidya

IMG-20151111-WA0010Combattente della libertà nel 1971. Ambasciatore della pace nel 2007. Fra i nominati (candidati) al Nobel per la pace, nel 2005. E’ Ashalata Baidya, eroina dei diritti umani in Bangladesh, in particolare per le donne e i poveri: in questi giorni l’operatrice umanitaria bangladese è in Italia, per cercare aiuti e imprenditori che vogliano lavorare per la crescita del suo Paese.

Ashalata è nata quasi 60 anni fa in un villaggio bangladese, Latenga. Fortunata, rispetto a molte coetanee, nasce in una famiglia piuttosto benestante, e frequenta sin da bambina una scuola cristiana diretta da missionari. Lì, dai sette anni in poi, tira fuori la rivoluzionaria che è in lei. E a forza di manciate di riso, in un Paese chiuso come poteva essere lo stato asiatico alla fine degli anni ’50, dalle medie in poi Ashalata inizia a lottare perché anche le altre ragazzine, più povere, possano frequentare la scuola. Lo racconta lei stessa:

“…andavo in seconda elementare, e a scuola avevo un’amica che mi era particolarmente cara. All’epoca, ricordo che gli studi si pagavano mese per mese: ad un certo punto, ci fu un mese in cui la sua famiglia non riuscì più a pagare. E lei venne mandata fuori dalla classe. Allora organizzai tutti, tutta la classe: uscimmo tutti insieme. Il preside mi convocò, ricordo che era un italiano, e mi chiese “cosa vuoi, per tornare a studiare?”. Gli risposi che tutti gli studenti dovevano poter venire senza pagare, perché non volevo studiare in una scuola che prendeva il sangue dei poveri. E vinsi, perché il preside permise a tutti di rientrare in classe. Poi, quando andavo in prima media, tornai a parlare con lui. Con l’avanzare delle classi, il prezzo per poter studiare era diventato molto più alto. Allora gli dissi, “voglio fare un negozio”. Organizzai i ragazzi della scuola media, tutti: ognuno, ogni giorno, portava a scuola una manata di riso. E finiva nel negozio cooperativo, consegnato al negozio cooperativo durante l’intervallo o dopo la scuola: i maestri, missionari, lo vendevano, e e il ricavato andava a coprire la retta degli studenti poveri. Così, molti altri poterono studiare”.

Nel biglietto da visita di Ashalata spicca, come prima qualifica, una scritta in rosso: Freedom Fighter, 1971. E’ l’anno in cui scoppia la guerra fra Bangladesh e Pakistan, con il primo che rivendica l’indipendenza dal secondo. Dura nove mesi: Ashalata guida l’unico battaglione femminile bangladese, portandolo in battaglia.

“…comandavo un battaglione di 365 donne. Di queste, 45 assieme a me si impegnarono in guerra con le armi in mano, faccia a faccia contro il nemico: sono fortunata, non rimasi ferita. Il comandante del mio settore, Hemyet Uddin, purtroppo sì. La guerra continuò per nove mesi, fino al 16 dicembre del 1971 quando il Bangladesh fu completamente liberato: in quei nove mesi morirono tre milioni di bangladesi, compresi donne e neonati, e 10 milioni di persone furono costrette a rifugiarsi in India. Appena finita la guerra, all’inizio del 1972, mi diedi da fare come volontaria per i rifugiati tornati dall’India, per dare loro una casa. Poi tornai a scuola, frequentando un master all’università di Dhaka, seguendo tre facoltà diverse: storia, scienze politiche e bangla”.

La guerra in Bangladesh ha anche un altro risvolto, pesantissimo: duecentomila donne vengono stuprate da soldati pakistani. Ashalata, studentessa universitaria, decide di lavorare per loro. Nasce il microcredito, con l’associazione TCCE, che esiste tutt’ora – diffusa ormai in tutto lo stato asiatico, e con Ashalata tutt’ora alla guida – che in questi 40 anni ha aiutato a superare la soglia di povertà 30 milioni di famiglie.

“…rimasi scioccata, dopo il conflitto, in particolare per un motivo: quelle tantissime donne stuprate dai soldati spesso non venivano più accettate nemmeno dalle loro famiglie. Per ristabilire la loro identità iniziai a lavorare per i diritti delle donne. Per loro, e per le tantissime madri e mogli che, all’epoca, venivano picchiate o erano oggetto di violenze in famiglia, nel mio Paese. Così iniziai a frequentare le donne del circondario, e poi via via a coinvolgere quelle dei villaggi della provincia. Fondando un’associazione, Tcce, per i diritti delle donne: si sosteneva in modo mutualistico, ma ero partita con i soldi raccolti prima della fine della guerra nella scuola missionaria, che mi ero fatta dare. Con quella cooperativa, fondata in modo ufficiale, partimmo da 45 donne. Alla fine dell’anno erano 277, poi via via sempre di più: l’aiuto che veniva dato era economico, si finanziavano piccoli lavori e investimenti: agricoltura, manifattura e artigianato locale, pesca, l’acquisto di mucche, pecore, galline e anatre. Ad un certo punto gli uomini cercarono di prendere il potere della cooperativa, ma mi opposi: la cooperativa era di donne e per le donne, e doveva essere governata da donne. E riuscimmo a resistere, anche grazie all’aiuto delle forze dell’ordine”.

Nel 1983 Ashalata riceve una medaglia d’oro dal governo bangladese, per la cooperazione e il successo dell’attività della cooperativa. In cui, però, varie attività vengono via via partecipate anche a livello politico. L’operatrice umanitaria, allora, decide di fondare un’ulteriore attività, un’associazione non governativa (ong) sempre a favore delle donne, in particolare quelle poverissime delle province più lontane dalle grandi città e dalle vie di comunicazione: è Surrjamukhi Sangstha (Sms).

“…tornata nella mia provincia d’origine, incontrai delle donne che, in mezzo al fiume, raccoglievano dei frutti, specie di patate, che nascono da dei fiori d’acqua. Li prendevano e li mettevano nel Sari, il velo tipico della nostra gente. Parlai con loro, all’inizio erano un po’ titubanti. Mangiavano fiori… da sei mesi. Mi dissero che da sei mesi non potevano permettersi il riso. Rimasi sconvolta da questo livello di povertà. Noi bengalesi mangiamo riso, ed è normale averne. Andai a vivere con loro, per tre mesi, perché le avevo prese a cuore. In quel periodo presi anche la tubercolosi, ma senza accorgermene. Poi tornai a casa, nella mia famiglia d’origine, e chiesi ai miei genitori del riso da vendere. Lo vendetti, e con il ricavato andai a comprare venti frantoi a mano, attrezzi per fare farina di riso. Quindi tornai da quelle donne e glieli regalai, assieme a 40 chili di riso grezzo. Lo macinammo insieme, poi mi occupai io di portare il prodotto al mercato: insegnai loro a mangiare la parte meno bella, e a vendere la parte più bella. In quel modo, in breve tempo accumulammo i soldi per 100 frantoi, e allargammo la comunità di donne. E un po’ alla volta, abbiamo iniziato a fare altri lavori, a comprare terreni, ad occuparci di agricoltura: la Sms, nata nel 1983, fino ad oggi ha dato un lavoro e un reddito a 250mila famiglie. Ma questo progetto io vorrei ampliarlo: oggi l’emergenza, nel nostro Paese, è il cambiamento climatico. Le acque dei fiumi e del mare si innalzano, sommergono le rive, mangiano la campagna. Il nostro slogan deve essere salvare l’ambiente e i fiumi: per questo sono qua, per cercare aiuto, da parte internazionale, per il nostro territorio. Servono banchine attorno ai fiumi, bisogna pulire i corsi d’acqua, bisogna piantare alberi sulle rive per contenerle. Dobbiamo limitare i danni naturali”.

http://word.world-citizenship.org/wp-archive/1321

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