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Schio. Eugenio morì in un incendio in ospedale. “Ricordarlo perchè non succeda ancora”

Riceviamo e pubblichiamo

Il 24 marzo ricorre il quarto anniversario della morte di Eugenio Carpanedo, un cittadino di Schio di 62 anni, un signore dall’aspetto giovanile e sportivo, nonostante l’età. Portava con fierezza barba e capelli lunghi “barba e cavei me piase longhi”, sempre allegro e pronto ad attaccare discorso, a fare una battuta. Era una persona buona e socievole, molto conosciuta e amata a Schio. Così lo descrivevano, con parole commosse gli amici ed i responsabili della comunità in cui viveva da qualche tempo. Si, perché Eugenio era una persona fragile, con un disagio mentale e per questo aveva bisogno del sostegno della sua comunità, della rete di persone del suo contesto sociale. Eugenio ha fatto una morte atroce. E’ morto carbonizzato in una stanza del servizio psichiatrico dell’ospedale di Santorso, dove era stato inviato per problemi polmonari. Come sia possibile morire in questo modo nel luogo deputato a curare le persone lo chiarirà il processo in corso, nel quale noi dell’associazione Cittadinanza e Salute, siamo stati riconosciuti essere parte civile (Il 26 aprile si svolgerà nel tribunale di Vicenza la seconda udienza). Sia noi dell’associazione, che ha come mission la difesa dei diritti delle persone con sofferenza mentale, che il comitato di mamme, che conoscevano bene Eugenio e ne ha assunto il nome, ci siamo assunti l’impegno di mantenere viva la sua memoria e di adoperarci perché venga fatta giustizia e impedire che si verifichino nel futuro episodi analoghi. Cogliamo l’occasione per dire che combattiamo da anni una cattiva pratica fortemente radicata dei servizi psichiatrici veneti e in particolare vicentini, definita a ragione un crimine di pace: la contenzione meccanica, che consiste nel legare le persone al letto, immobilizzando i quattro arti con apposite fascette. Il documento della Conferenza delle Regioni del 29 luglio 2010 la definisce così: “…trattandosi di una pratica, come ci ricorda il documento del CPT (The European Commitee for the prevention of torture and inhuman or degrading treatment or punishment), con un alto potenziale di degradazione ed umiliazione per il paziente, in contrasto quindi con il principio del rispetto della dignità umana che dovrebbe vincolare l’esercizio della medicina. L’argomentazione centrale porta a considerare la contenzione fisica come un intervento antiterapeutico, che danneggia il paziente anche quando non ne mette a rischio la integrità fisica, e danneggia la credibilità della psichiatria come scienza terapeutica. Eppure una certa psichiatria difende ancora e in modo strenuo questa usanza sopravvissuta alla chiusura dei manicomi, nonostante l’orrore che suscita, nonostante la sua obiettiva pericolosità. Infatti in Italia si sono succeduti numerosi decessi, come quello di Elena Casetto, una ragazza di 20 anni, morta contenuta il 13 agosto 2019 nel corso di un incendio, come nel caso di Eugenio, divampato nella sua stanza chiusa a chiave in un servizio psichiatrico di Bergamo. Nella nostra Provincia possiamo a ragione dire che la contenzione meccanica sia da sempre una prassi e non un evento eccezionale. Secondo i dati che abbiamo, nei servizi psichiatrici ospedalieri ogni giorno in media viene legata una persona. Abbiamo denunciato con una lettera ai Sindaci di Vicenza e ai Direttori Generali delle due Ulss questa e altre criticità della nostra psichiatria, allegando i numeri. Non abbiamo avuto riscontri apprezzabili. Eppure si tratta di un grave problema di civiltà che dovrebbe stare a cuore a tutti, soprattutto ai rappresentanti delle nostre comunità. Siamo certi che la mancata reazione sia dovuta alla nostra incapacità di spiegare bene la drammaticità della situazione e non piuttosto all’indifferenza. Siamo d’accordo con la senatrice Liliana Segre quando afferma: “L’indifferenza porta alla violenza, è già violenza”. Ad ogni modo siamo ancora in attesa di avere quell’incontro che abbiamo chiesto. I Responsabili dei Dipartimenti di Salute Mentale, minimizzando il problema, lo hanno addebitato sopratutto ai ricoveri di persone in stato di agitazione per assunzione di sostanze. Se anche così fosse, ricordiamo che è proprio compito loro provvedere a evitare i ricoveri impropri e non permettere, come dice il documento già citato, che i reparti psichiatrici diventino il ricettacolo di tutti i casi che hanno a che fare con la violenza. “Uno dei meccanismi più comuni di inappropriatezza è la traduzione di ogni situazione in cui vengono agiti comportamenti violenti in una manifestazione psichiatrica. In tal modo si fa della psichiatria, e dei suoi luoghi di cura, un contenitore aspecifico destinato a separare, accantonare, nascondere la violenza.” Contenere o meno non trova ragioni di ordine epidemiologico e neppure di necessità. E’ una scelta culturale consapevole. Le alternative sono due: Prendersi cura delle e persone fragili, anche nella crisi, con competenza e umanità, creando un buon clima terapeutico, oppure limitarsi al controllo e alla custodia, usando anche la forza, se serve, svolgendo un lavoro di mero controllo sociale, missione che non spetta alla psichiatria. Non ci stancheremo mai di ripetere che non solo è possibile prendersi cura delle persone senza ricorrere alla contenzione, ma è doveroso. Che sia possibile lo testimoniano anche l’esistenza di alcuni servizi, pochi in realtà (ce ne sono anche in Veneto), che riescono a curare senza mai contenere. Che sia doveroso lo dice in modo inequivocabile la nostra Costituzione, ai cui principi prende senso e forza anche la riforma basagliana e ce lo dice soprattutto la nostra coscienza civile.

Associazione Odv Cittadinanza e Salute