A 10 anni dalla scomparsa dell’alpino thienese Matteo Miotto, morto a 24 anni in Afghanistan centrato dal proiettile di un cecchino, il covid impedisce la commemorazione ufficiale pubblica, celebrata ogni anno in presenza nel cimitero di Thiene.

Nessuno però dimentica Matteo. Non lo dimentica l’amministrazione comunale, non lo scordano gli amici e i famigliari e le forze militari. Ma è il papà Franco, nel decennale dalla scomparsa del suo ragazzo, ad affidare toccanti parole di ricordo e nostalgia.

Racconta del ritorno di Matteo in una bara avvolta nel tricolore, con in tasca un piccolo presepio, che gli era stato donato da un prete che lo avrebbe poco dopo riaccompagnato in patria, dopo avergli chiuso gli occhi per sempre.

Il ricordo di papà Franco e quel piccolo presepio del Gulistan

“Quello postato è un piccolo presepe, un semplice manufatto in legno legato al Natale, come in questi giorni se ne potrebbero trovare, se non fosse per la pandemia, nei tanti mercatini di tradizione. A questa piccola icona è legata però una storia, una storia triste che incrociò la vita di Matteo e di riflesso la mia. Teatro della vicenda , un piccolo avamposto non più grande di un campo di calcio a 5, un lembo di Italia arroccato nella valle del Gulistan, un puntino nel cuore del deserto afgano chiamato Buji, un cuneo, una spina nel fianco sulla strada dell’oppio in territorio talebano, presidiato da 25 alpini del 7° dove Matteo incontrò il proprio destino che, quantunque strategico per il presidio dell’area, dopo alcuni mesi dalla morte del ragazzo, venne chiuso, abbandonato è ritenuto “ zona operativa troppo a rischio”.

Tutto ebbe inizio in una tetra stanza del “Celio” di Roma. Era sera quella domenica di gennaio. Nella camera ardente dell’ospedale militare, eravamo lì, attoniti, fissi sulla foto di Matteo posta sulla bara avvolta nel tricolore. Volgeva al termine una giornata, o meglio, la giornata da cerchiare in rosso nel calendario della vita. Quella mattina, un C130 ci aveva riportato Matteo, o meglio, quello che di lui restava. Nel pomeriggio poi, alla richiesta, quasi un imperativo, di poterlo vedere, le autorità militari si trovarono disarmate e forzando o aggirando regolamenti, ci concessero quello che ricorderò come il momento più struggente della mia intera vita.

Nella camera ardente con noi, provati nel corpo e annientati nello spirito, c’era Don Fabio Pagnin, cappellano militare, che dopo aver chiuso gli occhi al ragazzo, lo aveva accompagnato nel viaggio di ritorno. Era lì, in disparte e comprendendo la particolarità del momento, si avvicinò a me stringendo nella mano questo piccolo presepe. Franco, ti devo parlare. Tu sai, mi disse, che nei giorni delle festività Cristiane, talebani o qualsivoglia terroristi islamici sono particolarmente aggressivi. Io ero lì, a Buji nell’avamposto con tuo figlio e spaventato dai continui scoppi e spari cercavo riparo nei ricoveri. Matteo venne a cercarmi e con il suo solito fare scanzonato, mi prese il braccio e portandomi all’aperto disse: Sai Fabio cosa diceva Don Gnocchi? “Dove il pericolo è più grande, li, la presenza di Dio è più forte e quindi il tuo posto è qui”. Erano i giorni del Natale, volle essere confessato e io gli feci dono di questa natività che qualche giorno più tardi, dopo avergli chiuso gli occhi ritrovai nella sua tasca. Ora l’affido a te quale padre e depositario della sua memoria. Preda dei miei pensieri, lontano dalla realtà, meccanicamente accolsi questo simbolo di pace e cristianità passando oltre.

Da allora la ruota del tempo ha girato parecchio. Già, sto invecchiando. A volte penso a tutto questo come a vicende pregresse, lontane, ad esse però mi aggrappo con caparbia perseveranza. Passo dopo passo, onorando una regola mai scritta ma radicata nel tempo, ho ancora scritto di lui. Forse la qualità del lessico e gli argomenti, o meglio l’argomento, portano a considerare il tutto in chiave monotematica, ma scrivere di lui per me è un dovere morale, una gestualità imprescindibile cui non posso sottrarmi, tesa a far sì che la sua memoria rimanga viva. Quello che ad ogni spirare dell’anno cerco di narrare con dovizia di fatti circostanziati, credetemi, per me ha un prezzo, un alto prezzo che pago però volentieri.

E’ trascorso un decennio, 120 mesi, 520 settimane, 3653 giorni, un tempo breve di un’intera vita, ma lungo da gestire per un padre che di un passo non è arretrato nel ricordare il suo ragazzo e mi piace pensare a mio figlio sorridente, magari compiaciuto del suo papà. Si, anche questo è un modo di farlo vivere e autorizzarmi a credere che ne sia valsa la pena”.

di Redazione Altovicentinonline

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