C’è chi va a un concerto per ascoltare la musica, e poi c’è chi, come me ieri sera all’Arena di Verona, viene travolta da qualcosa di molto più grande: un’esperienza emotiva, visiva, collettiva, che ti entra sotto pelle e ti resta addosso. Come il profumo dei fiori che non hai colto, ma che ti hanno lasciato il segno. Sul palco del PalaJova Tour, Jovanotti non si è limitato a cantare: ha creato un universo parallelo, un mondo pulsante di energia e meraviglia in cui ogni nota era una possibilità e ogni luce un’emozione. La musica è stata la protagonista indiscussa, ma ciò che ha preso vita davanti ai nostri occhi è stato uno spettacolo totale: un viaggio sensoriale arricchito da visual mozzafiato e da una regia live che ha fatto dell’intelligenza artificiale uno strumento creativo e visionario.

Lorenzo diventava ora Buddha, ora Bob Marley, poi Elvis, Taylor Swift, animali, fiori, grattacieli, sogni. Volti e forme che si ricomponevano in tempo reale, come a dire che tutto può trasformarsi, basta lasciarsi andare. «L’intelligenza artificiale è una figata. Conta come la si sfrutta. Puoi usarla in maniera creativa o puoi farti usare da lei. Sta tutta lì la differenza», ha detto dal palco. E lui, di sicuro, la sa usare bene: la sua è arte digitale con cuore analogico. Il concerto inizia con un video-manifesto e una frase che resta incisa come un tatuaggio: “Tutti per uno, uno per tutti”, firmato Jovanotti. Da lì in poi, due ore e mezza senza respiro: canta, balla, racconta, corre, suda, abbraccia il pubblico con occhi lucidi e voce piena. È un uomo che ha fatto della gioia una rivoluzione. E tra luci, fiori, medley travolgenti, emergono anche momenti teneri e umani. Come quando racconta di aver chiesto a ChatGPT le cinque parole più usate nei suoi testi: «amore, vita, mondo, libertà, sole». Oppure quando chiede chi è venuto con la persona amata, e chi con un amico: le mani si alzano come in una marea affettiva. E poi quel bambino di otto anni che canta ogni pezzo a memoria, come se fosse nato con le canzoni di Jova nel cuore.

Ma non era solo. Eravamo migliaia, tutte generazioni mescolate, con la pelle d’oca e il sorriso largo, un’unica voce che diventava coro. E tra la folla, cartelloni che raccontano storie di famiglia, di rinascite, di viaggi e ritorni. Sul soffitto, dieci fiori giganti sbocciano, si richiudono, cambiano colore a ritmo di musica. Ipnotici. Meravigliosi. Simboli di qualcosa che vibra dentro. Il fiore non è lì per caso. È il simbolo scelto da Jovanotti per questo tour, ispirato al Diario di Etty Hillesum, simbolo di bellezza e resistenza anche nel dolore: «Volevo un tour floreale, che parlasse di rinascita e di bellezza che nasce anche dal fango». Come il loto, che si sporca e sboccia lo stesso. Come noi, quando la vita ci schiaccia e noi scegliamo comunque di cantare. E poi ci sono i dettagli che raccontano casa: il tappeto di Cortona che lo accompagna ovunque, le ballerine disegnate per lui da Maria Grazia Chiuri di Dior, la band, gli amici, le parole dette tra una canzone e l’altra, piene di libertà e gratitudine. Nulla è lasciato al caso, eppure tutto vibra di autenticità. Alla fine, mentre il pubblico esplode in un ultimo ballo collettivo e lui ringrazia con le mani sul cuore, capisci che Jovanotti non ha semplicemente fatto un concerto. Ha creato un rituale laico di felicità condivisa, un abbraccio collettivo, un momento di sospensione dal tempo che continueremo a portarci dentro.

Perché certe emozioni non finiscono con l’ultima nota. Restano. Come i fiori che sbocciano di notte, quando nessuno guarda. Ma che il cuore, di sicuro, non dimentica.

Valentina Ruzza

 

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