di Cinzia Capitanio

 

Stai zitta.

Non parlare.

Il tuo pensiero e la tua voce non valgono nulla perché sei una donna… perché devi occuparti di altro… perché non sai niente…

Sembrano frasi appartenenti a un mondo lontano nel tempo e nello spazio ma, purtroppo, non è così. Basta scorrere i post presenti nelle pagine social di alcune giornaliste per farsi un’idea. Il web è diventato il luogo privilegiato dove non è difficile incontrare espressioni denigratorie e offensive nei confronti della donna: dall’hate speech, inteso come aggressione verbale attraverso un linguaggio violento di incitamento all’odio, allo slutshaming che consiste nello stigmatizzare una donna per la sua reale o presunta condotta sessuale.

Le ricerche dimostrano che l’uso di un linguaggio d’odio nell’ultimo periodo è aumentato considerevolmente. Secondo i dati forniti da Vox-Osservatorio Italiano sui Diritti, sulla base di uno studio compiuto su Twitter, nel 2020 gli attacchi contro le donne sono stati preponderanti.

Ad analizzare il fenomeno è un’accurata raccolta di dati, riflessioni e testimonianze pubblicata nel libro “#STAIZITTA giornalista!” curato da Silvia Garambois e Paola Rizzi.

Come denuncia Laura Boldrini (Parlamentare, presidente della Camera dei Deputati 2013-18), alla base dell’odio social verso le donne ci sono tre elementi:

¾ La presenza radicata di una mentalità maschilista e patriarcale che delegittima alcuni ruoli pubblici rivestiti dalla donna perché considerati patrimonio dell’universo maschile;

¾ La tendenza a sminuire le forme di sessismo ponendole allo stesso livello dello scherzo, della battuta divertente o goliardica;

¾ La sottovalutazione della pericolosità di quanto viene veicolato attraverso i social e il web in senso lato.

L’odiatore basa tutto il suo costrutto su stereotipi e su una falsa rappresentazione della realtà. Il discorso d’odio aggredisce, insulta, umilia e ferisce, ma fa anche molto altro: tenta di indurre al silenzio e priva di legittimità. Per questa ragione colpisce con particolare accanimento le donne che, come le giornaliste, svolgono professioni che possono apparire “scomode” a causa delle loro inchieste su tematiche scottanti come la lotta alla criminalità organizzata, l’emigrazione, la giustizia sportiva…

Contrariamente a quanto si possa pensare, i messaggi d’odio divulgati online sono potenzialmente più pericolosi di quelli offline sia perché possono essere diffusi velocemente a un numero indefinito di persone, sia per la loro permanenza nel tempo. A ciò si aggiunge il fatto che contengono una carica di aggressività pesantemente accentuata dalla distanza fisica fra interlocutori e ciò impedisce l’attivazione dell’empatia e di quegli indispensabili meccanismi di regolazione sociale. L’hate speech diventa così, come lo definisce la giornalista Monica Napoli, “il brodo di coltura che poi spiega la violenza fisica sulle donne”.

Dalle testimonianze raccolte dal libro emerge un quadro preoccupante: dietro ai discorsi d’odio che imperversano contro le donne protagoniste della vita sociale con ruoli nel mondo della politica o dell’informazione non ci sono solo “leoni o leonesse della tastiera”, ma anche vere e proprie squadre di odiatori pagati per indurre al silenzio. Il crimine organizzato, per esempio, ha tentato di fermare azioni di denuncia di giornaliste impegnate in indagini di mafia come è accaduto a Marilù Mastrogiovanni, fondatrice e direttrice della testata “Il tacco d’Italia”. Il suo è un caso emblematico di come dagli insulti sessisti nei social mirati a impedirle di proseguire le sue indagini giornalistiche si possa passare a minacce concrete come quella dell’uscita di un enorme manifesto che la rappresentava seppellita in una fossa.

Nel web l’hate speech assume i colori distorti della disinformazione, della volontà di accendere gli animi in discussioni così violente che qualche giornalista è stata costretta ad allontanarsi dai social con gravi danni per la propria professione. Nunzia Vallini, direttrice del Giornale di Brescia, per esempio, ha pubblicato un lungo post editoriale spiegando le ragioni di quello che ha definito come un “lockdown per Facebook contro il virus delle maleparole che non cercano il dibattito, ma la rissa. Che non informano ma demoliscono. Che non vogliono costruire nulla, tantomeno consapevolezza, e che mirano solo a delegittimare, seminare odio, rancore, razzismo. Che non lasciano spazio alla pluralità né alla decenza. Che scaricano bile e non contribuiscono a trovare soluzioni”. I post diventano infatti una sempre più frequente occasione per infiammare il dibattito con la finalità di godere dell’algoritmo di Facebook che privilegia la visibilità dei contenuti che innescano più reazioni.

A tutto ciò non è facile reagire. Le testimonianze raccolte in “#STAIZITTA giornalista!” evidenziano quanto sia complesso il fenomeno dell’hate speech: nella maggioranza dei casi non è sufficiente cancellare post poiché vengono presto ripubblicati con profili fake. Certo, è possibile e doveroso denunciare tuttavia va detto che il percorso delle denunce è lungo e tortuoso. Di fatto in Italia non esiste una normativa specifica sui reati online quindi si propende per l’applicazione di leggi già esistenti come quelle contro la diffamazione o l’istigazione all’odio.

Nel 2010 è stato istituito l’Osservatorio per la sicurezza contro gli atti discriminatori (Oscad): è lo strumento operativo per ottimizzare l’azione delle forze di polizia a competenza generale nella prevenzione e nel contrasto dei reati di matrice discriminatoria. Oscad e Unar (l’Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali istituito presso il Dipartimento per le pari opportunità della Presidenza del Consiglio dei ministri), dal 2011, in seguito alla sottoscrizione di un protocollo di intesa, collaborano intensamente, soprattutto in materia di scambio informativo e formazione.

In aggiunta agli organismi istituzionali stanno nascendo molte associazioni che promuovono azioni contro tutte le forme di hate speech. Tra queste c’è anche GiULiA (acronimo di Giornaliste Unite Libere Autonome) nata per: promuovere l’uguaglianza dei generi nella società, difendere l’immagine della donna, battersi per la libertà e l’autonomia dell’informazione.

Le azioni di sensibilizzazione contro la violenza, la prevaricazione e gli insulti nel web stanno aumentando coinvolgendo anche le scuole in progetti formativi e informativi. Il messaggio di fondo è che le parole sono pietre e fanno male. Proprio come le pietre possono generare frane che travolgono vite e professioni seppellendo la libertà e la giustizia. Ciascuno di noi può fare la propria parte ricordando che le parole hanno un grande potere e, come spiega il Il Manifesto della comunicazione non ostile dell’associazione no-profit Parole O_Stili, possono e devono diventare un ponte verso gli altri.

Cinzia Capitanio

Cinzia Capitanio vive a Vicenza. È laureata in Scienze dell’Educazione e insegna da molti anni.

Vincitrice di premi letterari quali: Concorso Letterario Internazionale La Dama Castellana Racconta (2015); Premio Letterario Narrativa Infanzia Anna Osti (2015); Premio dei Giovani Lettori “SCEGLILIBRO” (2019); Premio Bancarellino (2021).

Finalista in: Premio “Il Battello a Vapore” edizione 2012 ed edizione 2013, Premio Nazionale Arpalice Cuman Pertile nel 2013 e nel 2019; Concorso “La casa della fantasia” (2014); Concorso letterario nazionale Giana Anguissola (realizzato in collaborazione con la rivista Andersen e patrocinato dal Ministero della Cultura e della Regione Emilia-Romagna) e Premio speciale “Libertà” assegnato dall’omonimo quotidiano di Piacenza (2021).

Ha pubblicato:

· Matite colorate in fondo al mare, Editrice MOL (Mamme on line)

· Lo scrigno delle farfalle, Raffaello Editrice

· Scintilla, ed. Piemme

· Sulle ali del falco, ed. Einaudi

· La carezza del vento, ed. Raffaello

· Il suono delle stelle, ed. Tredieci

· L’Orlando furioso, ed. Raffaello

· Aria, ed. Il Ciliegio

· La memoria dell’anima, ed. Raffaello

· Una bottiglia nell’oceano. 1910, in America, ed. Paoline – PREMIO BANCARELLINO 2021

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