La morte del bambino di nove anni a Muggia, ucciso dalla madre l’altra sera, continua a scuotere l’Italia. Una vicenda che colpisce per la sua brutalità ma anche, e forse soprattutto, per il lungo filo di fragilità che la precede. A raccontarlo è il parroco della Diocesi di Trieste, don Andrea Destradi, una delle poche figure che negli anni aveva avuto modo di osservare da vicino il lento precipitare della donna in un disagio che non ha mai trovato un vero contenimento.
Il parroco: “Non era il lavoro che le serviva, ma aiuto professionale. Non voleva farsi curare”
Destradi, che conosceva da tempo la famiglia, non parla con rabbia ma con un turbamento lucido: «Lei aveva bisogno di un aiuto più professionale — racconta — glielo dicevo spesso. Mi chiedeva aiuto per trovare un lavoro, ma capivo che non era quello il punto. Le dicevo: rivolgiti ai medici. Ma era convinta di non averne bisogno».
Parole che oggi risuonano come un campanello d’allarme non ascoltato abbastanza.
Un malessere psichico che era stato intercettato, monitorato dai servizi competenti, ma forse non compreso davvero. O comunque non affrontato con quella continuità e quell’intensità che una situazione fragile avrebbe richiesto.
Un segnale non compreso: la fragilità che non trova casa nei servizi
La famiglia era seguita da anni dai servizi sociali e la donna era in carico al Centro di salute mentale. Una presa in carico formale, dunque, ma che non si è tradotta in una protezione efficace. Questa tragedia apre una domanda inevitabile: quando un disagio diventa rischio? E chi ha il compito, e gli strumenti , per coglierlo?
Nel quotidiano, la salute mentale è spesso evocata come uno slogan: si parla di “prevenzione”, “ascolto”, “rete territoriale”. Ma nei fatti, come denunciano da anni operatori e associazioni, la rete è sfilacciata, il personale insufficiente, gli interventi troppo lenti e spesso frammentari. La cronicità del disagio psichico resta schiacciata tra burocrazia, carenza di risorse e una cultura che ancora fatica a riconoscere la sofferenza mentale come un’emergenza.
Il parroco lo riassume con una parola: fragilità.
Una fragilità che — dice — “forse sfuggiva alle capacità della nostra comunità”.
Stando alle informazioni diffuse dalle autorità, non c’erano stati segnali considerati tali da far scattare misure più restrittive o una supervisione costante degli incontri tra madre e figlio. E tuttavia, la domanda rimane: cosa impedisce oggi ai servizi territoriali di intervenire in modo più incisivo quando una fragilità mentale appare evidente?
Negli ultimi anni, in molte regioni italiane il sistema di salute mentale ha subito riduzioni di personale, carichi aumentati, liste d’attesa interminabili. Gli operatori segnalano da tempo che la capacità di valutare e contenere i rischi si è drammaticamente ridotta.
La tragedia di Muggia non può essere ridotta a un singolo gesto di follia, isolato e imprevedibile. È invece il risultato di un contesto in cui la vulnerabilità psicologica viene troppo spesso riconosciuta, ma raramente presa in carico fino in fondo.
Il dolore della comunità, espresso dal sindaco con la proclamazione del lutto cittadino, si unisce alla voce di un parroco che per anni ha osservato senza poter intervenire davvero. “Pudore”, lo chiama: il pudore delle persone nel mostrare la propria sofferenza, ma anche il pudore , o la paura, delle istituzioni nell’andare davvero a fondo quando il disagio psichico si manifesta. Perché per prevenire tragedie così non basta “essere seguiti dai servizi”. Serve una presa in carico capillare, continuativa, competente. Serve uno Stato presente, non formale. Serve la consapevolezza che la salute mentale non è un tema da convegni o da campagne, ma una questione quotidiana e urgente.
La domanda che resta
Non c’è un’unica colpa da additare. Ma c’è una domanda che attraversa questa vicenda come una ferita aperta: quante altre tragedie si potrebbero evitare se la fragilità psichica venisse affrontata non come un fatto privato, ma come un’emergenza pubblica? Muggia, oggi, piange un bambino. Ma piange anche il fallimento di un sistema che ancora non riesce a proteggere chi non ha voce — né, spesso, la capacità di chiedere aiuto.
N.B.
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