Sono arrivati in centinaia, oggi pomeriggio, a Torrebelvicino, per d’are l’addio a Elia Marcante, imprenditore di 65 anni che si è tolto la vita nella sua fabbrica a Schio la sera di mercoledì 6 marzo.

La piccola chiesa parrocchiale, straripante di persone già alle 14 e 30, non è bastata a contenere la fiumana accorsa per seguire la cerimonia. Una partecipazione attesa, tanto che nel piazzale esterno all’edificio erano stati predisposti numerosi altoparlanti.

 

Suonano le campane e il feretro viene accompagnato all’interno, sostenuto dagli amici dello Schio-calcio, la squadra della quale Elia era stato presidente per diversi anni.

Nel piazzale di fronte la chiesa riecheggiano squarciando il silenzio le parole di don Armando Taldo, il parroco del paese. “La vita è piena di misteri incomprensibili, siamo tutti disorientati e sconvolti da quanto è accaduto”, afferma il sacerdote in un’omelia sentita e dimessa. “Non siamo qui per giudicare o condannare. Che il Signore possa cancellare ogni traccia di umana fragilità e perdonare Elia. Chi crede in Dio non morirà in eterno”.

Sentimenti di cordoglio e commozione investono i partecipanti emozionati e attoniti. Ma si respirano anche una certa rabbia e disappunto tra la gente, che addolorata per la perdita, non riesce comunque a giustificare un gesto così estremo e davvero inspiegabile per una persona come Elia, energica, amante della famiglia e della vita.

Dai colleghi della figlia Cristina, maestra d’asilo, agli amici imprenditori del padre, sull’altare si succedono in molti, tra letture commosse di commiato per Elia e parole di conforto e speranza rivolte verso i figli, i nipoti, la moglie, tutta la famiglia. Anche uno dei nipotini vuole dare l’ultimo saluto al nonno, ma l’emozione è incontenibile: la voce si spezza singhiozzando mentre il piccolo si rammarica per il poco tempo trascorso insieme, e lascia continuare la mamma.

Luigi Meneghello in un passo del suo libro più famoso “Libera nos a Malo” scrive: “C’è invece l’espressione ‘bisogna’, nel senso in cui si dice che morire bisogna. Anche lavorare bisogna, per sé, per la ‘dòna’, per ‘el me òmo’, per i figli, per i vecchi… Bisogna lavorare, non otto ore, o sette ore, o dieci ore, ma praticamente sempre….”. Il modello del lavoro come necessità, come unico fine, afferma Ilvo Diamanti in un articolo su Repubblica del marzo 2012, è stato alla base della società “laburista” del Nord-Est fino a tempi recenti. Ora, di fronte alla crisi economica, al precariato e alla disoccupazione, quel modello si è dissolto, portando con sé un dissesto anche a livello sociale.

 ”Morire per il lavoro”, scrive Diamanti, “poteva essere un prezzo accettato e perfino necessario, per una civiltà laburista. Ma se il lavoro e la fatica non bastano più, cosa terrà insieme la società?”

E se il Lavoro è il valore fondamentale su cui si basa la nostra Costituzione, quindi la nostra vita all’interno dello Stato, che senso ha allora la vita?

Alessandro Mafrica

 

 
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