Trovare una prospettiva alla mostra del Circolo Fotografico Città di Thiene nella realtà del contemporaneo significa indagare le ragioni di “come” il mezzo fotografico possa ancora oggi – nell’imperante iperinflazione dell’immagine e dell’immaginario – stabilire un colloquio con il guardante. Un libero sguardo sembra effettivamente guidare le sperimentazioni o i collaudati linguaggi di questi 23 fotografi che si presentano al pubblico privi di inibizioni come da sempre vuole l’appartenenza al circolo o al gruppo.
L’indagine sarà allora interiore e le immagini porteranno in superficie le parole contenute.
Immagini commentate dagli autori stessi attraverso un titolo che può essere guida ma anche e solo indicazione, poiché qui come altrove è il tempo e solo “un tempo di attenzione” a muovere i riposti meccanismi del guardare e dunque del vedere.

Attenzione e sensibilità animano questa collettiva attraversata da correnti tematiche ben definite: e mentre le immagini di Marchioro ci ricordano da subito – con addomesticati ammiccamenti – quanto il Fantasy abbia sicuro posto nell’immaginario collettivo, immagini precise e precise parole guidano le rivisitazioni dadaiste di Parise a ricordarci quando la Festa era prima di tutto il buon mangiare, attraverso l’ironica descrizione aperta a tutti i sensi e al non-senso e gli infiniti rimandi all’arte culinaria e alla cucina povera (grana, cren, piatto porco) di un passato comune che non passa mai di moda come il cibo, essenza consustanziale, percorso alchemico, immanenza filosofica.
Immagini e parole ci introducono nel mondo riflesso che Cristina Scapin sa riproporre in Cartoline da Santorini dove ad essere ripristinata e pienamente integrata è l’immagine oleografica della cartolina da viaggio, pretesto per creare un ponte tra “chi va e chi resta”, legame suggerito dall’ ampia scelta di immagini del luogo da spedire di sicuro, commentate da un testo di scrittura familiare di pensieri e di saluti.
Questo essere “ponte tra passato e presente” – testimoni del proprio tempo – sottolinea tutta l’attività del gruppo, dai reportage naturalistici di farfalle e fiori di Sebastiani, (protagonista il colore qui nell’allusione alla botanica bellezza del segno e del disegno come vuole una marcata tendenza del contemporaneo) alle esibizioni formali di Anna Toniolo dove il corpo del presente è sempre il corpo del passato e il martirio diventa teatro, rappresentazione scenica e sacra ma anche estetico.
Un ponte dove l’uomo passa con la sua presenza viva è il mondo di Arianna Turle e Carlo Rossi: grandi architetture di spazi urbani – riprese nella bellezza di monumenti anonimi – si aprono al passaggio di un volto, di un corpo che le attraversa caricandole di senso e dove le scenografie da film sembrano fatte solo per potersi riposare; spazio grandioso allora ma per l’uomo e attraverso l’uomo come in un rinnovato umanesimo. Umano è lo spazio bianco indagato del paesaggio invernale, pretesto che segna il limes tra il dentro e il fuori della Casa, vera protagonista dell’immagine, presenza viva con le insistenze dei materiali naturali in evidenza, la pietra in primis (Penzo). Le vecchie case abbandonate di contrada, integre ed austere o scoperchiate dal tempo segnano l’indagine di Luca Borgo non nuovo a queste riflessioni che altri lavori (e autori) non presenti in mostra ci hanno rivelato in documentate e indimenticate indagini sul territorio. E mentre lo spazio di una fabbrica abbandonata allude alle assenze dell’umano inevitabilmente presente in spirito (Geronazzo) le immagini-documento di Bruno Cortina ci ricordano tutte le prigioni e le fortezze della Storia con il triste retaggio di muri, reticoli e inquietanti porte blindate ancora pronte a chiudersi per ogni evenienza presente e futura.

L’attesa dell’ evento ultimo anima le decostruite immagini della storia raccontata da Piero Martini ma con la suggerita semplicità cui tendere nell’inevitabile, senza l’impronta di turbamenti eccessivi e insistite tristezze, tristezze che “il mondo di Maria” (altra storia di attesa raccontata da una sorprendente Claudia Negrello) sembra saper allontanare con l’aiuto di occupazioni conosciute che il paesaggio agreste e la vita di contrada sembrano contenere in una rasserenante quotidianità cui fa da sfondo il volto stesso di Maria. I piani reportage di Angelo Peraro raccontano nelle immagini polite un quotidiano di lavoro là dove però è “l’odore del luogo” a creare la storia mentre lo spettacolare-naturale di Marco Villani ci assicura il cangiantismo di una certa visione diffusa. Spettacolari sono le acrobatiche invenzioni formali di Roberto Lanci che lo spazio aereo carica in composizioni davvero singolari e di indubbio fascino con rimandi archetipici da insetto primordiale dove il corpo dell’umano si fonde con il mezzo per formare un solido indistinguibile come vuole qualsiasi tradizione virtuosistica mentre il naturalismo di Davide Callegaro ci racconta i passaggi di una velocità a misura d’uomo nella distensione di toni di un verde naturale. Il movimento interiore domina le immagini rotanti dei Dervisci di Ferranti e mentre l’estasi mistica si rivela nei volti assenti e negli interni scarni, è la citazione a fermare l’attenzione, a buon titolo entrata nel nostro comune inconscio di occidentali.
Interno – esterno, sfondo e primo piano “in reciproca connessione” attraversano le immagini in bianco e nero dei Transiti urbani di Campagnolo e di Vezzaro mentre altri transiti in interni specificamente connotati (Biennale Veneziana) aumentano per proprietà associativa, commutativa e transitiva i commenti a margine di Bortolazzo e di Bisogni a dimostrare che la lettura di una stessa immagine-ritratto può condurre in direzioni diverse, non necessariamente antagoniste.
Immagini che si fanno parole come nella migliore tradizione narrativa, attenzione per l’uomo nel paesaggio, nell’azione spettacolare o intima, attenzione alla storia, al dolore nei suoi risvolti esistenziali – singolari o collettivi – ironia e poesia, riflessioni sull’arte e il corpo che attraversa spazi interni ed esterni connotandoli intimamente, corpo sempre presente anche e soprattutto nell’assenza, nella forza della sua stessa fragilità ma mai tracotante, invadente, corpo di uomo che lavora e prega, aspetta, denuncia ma anche assolve in un rinnovato, autentico desiderio di comprensione.

Antonella Brazzale

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