frammento civile sull’umanità in guerra a cura di Bruno Grotto
C’è un suono che attraversa il nostro tempo come un diapason infranto: è il suono delle armi.
Non ha melodia, ma ritmo: un ritmo sordo, ossessivo, regolare come il battito di un cuore in affanno.
Ogni giorno — mentre sorseggiamo un caffè, rispondiamo a una mail, accompagniamo i figli a scuola — qualcuno nel mondo viene ucciso. Qualcuno muore per fame, per fuoco, per fanatismo o per strategia geopolitica.
Le guerre non sono più “eventi”, ma una condizione diffusa, una febbre cronica dell’umanità.
Ci sono più di 56 conflitti armati nel mondo, il numero più alto dalla Seconda Guerra Mondiale: in Ucraina, in Sudan, nello Yemen, nel Myanmar, nel Sahel, nella Repubblica Democratica del Congo.
Guerre dimenticate, guerre mediatiche, guerre civili, alcune vengono definite guerre “a bassa intensità” — come se esistesse un dolore, un lutto leggero.
E poi c’è Gaza, che non è più luogo, ma una ferita dell’umanità. Un lembo di terra ridotto in polvere da una forza di fuoco spaventosa, che non distingue più tra bersagli e vite, tra terrorismo e innocenza.
L’artiglieria, i droni, i bombardamenti chirurgici — chirurgici come può esserlo una lama che recide una città intera. A ciò si è aggiunto, con discrezione brutale, anche l’attacco a obiettivi militari in Iraq, in una logica di deterrenza che sa più di furore calcolato che di difesa.
Si moltiplicano le reazioni a catena, gli avvertimenti, le vendette. E il diritto internazionale si accartoccia sotto il peso della geopolitica, come carta esposta al fuoco.
Viviamo in un’epoca in cui la pace è un’eccezione geografica, non un diritto diffuso.
E, cosa ancora più drammatica, la guerra è tornata a essere un linguaggio accettato: una lingua che parla con i missili, e algoritmi militari, per portavoce ben pettinati che raccontano devastazioni come se si trattasse di rendiconti economici.
La guerra non è che il suono della morte quando la parola pace non viene più interpretata.
Ma oggi non c’è più musica: c’è solo un frastuono cieco, senza partitura, senza armonia, senza memoria. Cosa manca, allora, perché tutto questo esploda in qualcosa di più grande, di più assoluto, di più definitivo?
Manca solo la scintilla.
E non è un’allusione lirica: è un’ipotesi concreta.
Una terza guerra mondiale non si presenta più come eserciti schierati in campo aperto, ma come un sistema di alleanze instabili, escalation tecnologiche, provocazioni calcolate, guerre per procura che sfiorano ogni giorno la linea rossa.
È sufficiente una crisi nel Pacifico, un incidente nel Mar Rosso, una reazione sproporzionata in Medio Oriente, un’azione militare in Iran letta come atto di guerra da una potenza rivale, perché il pulsante venga premuto.
Il mondo è un’orchestra mal diretta: troppi strumenti suonano da soli, nessuno ascolta l’altro.
E in mancanza di un direttore che sappia riportare al silenzio, l’unica realtà del suono consiste nella dissonanza totale.
Non scrivo per allarmare, ma per alzare il tono dell’attenzione.
Per dire che la bellezza non è evasione, ma resistenza, e che ogni gesto artistico, ogni parola pensata, ogni atto di cura quotidiana è un no discreto alla barbarie.
Finché avremo voce, musica, poesia, educazione e dubbio, potremo ancora impedirlo.
Ma bisogna affrettarsi.
Il silenzio, quello vero — quello che segue l’ultima esplosione — è già stato composto.
Manca solo l’esecutore, che arriverà, statene pur certi.
