Negli ultimi dieci anni il gin ha vissuto una crescita costante e sorprendente. È partito con i grandi nomi internazionali premium, per poi attraversare tutte le fasi della filiera artigianale: prima i gin nazionali di alta gamma, poi quelli regionali, provinciali e infine locali. Il 2023 ha rappresentato una vera esplosione del gin artigianale, con centinaia di etichette nate in ogni angolo d’Italia. Una corsa che ha portato anche realtà medio-piccole, come Valdagno, a vantare addirittura tre produttori locali di gin. Una crescita che, però, ha finito per saturare il mercato. Il problema? I consumi non sono aumentati nella stessa misura. Il volume di gin venduto è rimasto più o meno stabile, ma le etichette si sono moltiplicate: il risultato è stato una frammentazione dell’offerta che ha ridotto lo spazio per tutti. Dove prima i locali avevano in bottigliera 100, 110, anche 120 referenze diverse di gin, oggi se ne contano una ventina. La selezione si è ridotta e, con essa, anche il margine per molte microproduzioni.

Il gin continua comunque a “spaccare” – come si dice nel gergo del settore – e rimane una presenza fissa nei menu. Ma il sentiment degli operatori sta cambiando. Cresce l’interesse per vermouth e bitter, prodotti con una forte identità, che si collegano meglio a una narrazione territoriale, a una ritualità di consumo più accessibile e a un pubblico che cerca un rapporto più diretto con la bevanda. In altre parole, si torna alla base: si cercano prodotti che parlino alla gente, che raccontino storie vere e che abbiano senso anche fuori dalle mode. E se il gin resta un fedele compagno nel mondo mixology, il futuro prossimo sembra riservare maggiore attenzione a categorie come vermouth, bitter e liquori con radici storiche.

V.R.

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