Altro che solo polenta.

Il Veneto è una regione dove la pasta, seppur meno protagonista rispetto ad altre zone d’Italia, rivela un mondo tutto da (ri)scoprire. Un patrimonio prezioso fatto di sfoglie casalinghe, trafile artigianali, antichi torchi e abbinamenti che raccontano stagioni, montagne, campagne e contaminazioni di confine. Perché tra le Alpi, la Laguna e le pianure disegnate dai fiumi, ogni vallata ha avuto qualcosa da dire in cucina. Ed è così che i bigoli, i casunziei, i gargati o le lasagne da fornèl si fanno testimoni di una storia gastronomica veneta tanto sottile quanto affascinante. Il  viaggio comincia con i bigoli, probabilmente il formato più noto, ma che merita comunque di essere raccontato. Pasta lunga e corposa, ruvida, nata dal celebre bigolaro, un torchio in bronzo che la leggenda attribuisce a un pastaio padovano soprannominato “Abbondanza”, autorizzato nel 1604 dal Comune a brevettare il marchingegno. L’impasto? Farina, latte, a volte uova di gallina o d’anatra per i più fortunati. Oggi ne esistono versioni in farina integrale, grano saraceno o colorati al nero di seppia – i cosiddetti bigoi mori o neri – sempre fedeli a una texture ruvida e porosa, ideale per accogliere sughi decisi. Dalle pianure vicentine arriva invece un altro formato “al torchio”: i gargati. Versione locale dei maccheroni, nascono nel secondo dopoguerra per rispondere alla crescente richiesta di nuove forme di pasta. L’impasto – farina di grano tenero, semola e circa sei uova per chilo – è compatto e asciutto, perfetto per essere trafilato ed estruso. Il risultato è una pasta rustica e porosa, capace di trattenere ogni tipo di sugo. A Vicenza si gustano col consiero, un intingolo ricco di lardo, ritagli di carne, erbe e conserva di pomodoro. In provincia di Treviso, invece, lo stesso formato si veste di verde: l’aggiunta di ortiche fresche dona ai gargati un gusto erbaceo e un colore intenso, che si abbina splendidamente a condimenti sia vegetali che di carne. Più a nord, tra le vette della Val del Boite, nascono i casunziei, ravioli a mezzaluna con sfoglia sottile e ripieni che seguono le stagioni. Barbabietole, spinaci, zucca, radicchio: ogni vallata ha la sua variante, anche dolce, da servire alla Vigilia di Natale con miele e semi di papavero pestati. In Lessinia, invece, sopravvive l’eco della cultura cimbra. Gli gnocchi smalz, dal nome che richiama il burro (smalz in cimbro), si preparano senza patate: solo acqua, farina e latte, a volte con un pizzico di lievito. Si condiscono con burro fuso, formaggio di malga o ricotta affumicata: un piatto che unisce semplicità e intensità. Sempre nella provincia di Verona, la città scaligera vanta un amore antico per gli gnocchi di patate, protagonisti del Venerdì Gnocolar e conditi con burro e formaggio, sugo di pomodoro o la pastissada de caval, antica ricetta a base di carne equina stracotta nel vino. E proprio nel Veronese troviamo un altro formato tanto semplice quanto evocativo: le paparele. Non fatevi ingannare dall’assonanza con le pappardelle: qui parliamo di una pasta lunga, ma molto più sottile, simile ai tagliolini, ricavati a mano da sfoglia all’uovo tirata fine. Sono servite in brodo di carne, soprattutto durante i pranzi domenicali o le festività, e accompagnano il classico bollito misto e la pearà, la salsa pepata simbolo di Verona.

Tra i piatti che uniscono dolce e salato, non si può non citare le lasagne da fornèl, diffuse tra Canale d’Agordo, Falcade e la Valle del Biois. Si tratta di sfoglie larghe e rustiche, lessate e condite in padella con burro e un pesto dolce a base di semi di papavero, zucchero, uvetta, arachidi, noci e cannella. Un piatto d’altri tempi, che racconta di povertà, ingegno e contaminazioni. A Treviso, invece, la pasta all’uovo si fa specchio del territorio. Le tajadele, versione veneta delle tagliatelle, si tingono di rosso grazie al radicchio tardivo, eccellenza locale dal gusto amaricante. La sfoglia sottile accoglie con eleganza condimenti di stagione, preferibilmente leggeri, per esaltare la personalità vegetale dell’ortaggio. E infine, ai confini col mantovano, nella suggestiva cittadina di Valeggio sul Mincio, va in scena ogni anno una vera e propria festa dedicata ai tirache. Detti anche tortellini di Valeggio, sono fagottini ripieni di carni miste rosolate con verdure, arricchite con una sfumata di vino rosso e un tocco di pangrattato. La sfoglia, rigorosamente all’uovo, viene chiusa in una forma che ricorda un antico nodo d’amore. Ogni secondo martedì di giugno, il ponte visconteo si trasforma in una lunga tavolata sotto le stelle: una celebrazione collettiva del gusto e del romanticismo. Ognuno di questi formati ha qualcosa da raccontare: una tradizione familiare, una festa di paese, una ricetta salvata dal silenzio. È un’Italia minore e meravigliosa, fatta di mani che impastano e di storie che resistono.

E in Veneto, anche il più piccolo dei ravioli può custodire un pezzo di memoria.

V.R.

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