Per anni ci hanno raccontato la favola dello chef come eroe contemporaneo: genio creativo, star televisiva, custode del Made in Italy. Ma dietro le luci della ribalta, le cucine si stanno svuotando. I giovani non ci vogliono più entrare. Non per mancanza di passione, ma perché non accettano di trasformare la loro vita in una condanna a turni infiniti, stipendi da fame e zero prospettive di crescita. «Senza turni unici e dignità, il settore non avrà ricambio», denuncia senza giri di parole Rocco Pozzulo, presidente della Federazione Italiana Cuochi. Un grido d’allarme che fotografa un’emorragia silenziosa: intere generazioni stanno abbandonando i fornelli, attratte da altri lavori che garantiscono stabilità, orari umani e – soprattutto – rispetto. Il nodo non è solo economico, ma culturale. Le vecchie brigate vivevano la cucina come una missione, una dedizione assoluta che giustificava ogni sacrificio. Oggi i giovani rifiutano il martirio. Non vogliono essere schiavi, ma professionisti. Chiedono orari sostenibili, condizioni dignitose, spazi di crescita. E quando non li trovano, scelgono altre strade. La pandemia ha accelerato questa presa di coscienza. Molti hanno riscoperto la bellezza del tempo in famiglia, delle feste passate a casa, delle domeniche libere. «Oggi la vera ricchezza è il tempo libero», ammette Pozzulo. E allora perché passare 14 ore al giorno in cucina quando un contratto nella Gdo o in una gastronomia garantisce meno stress e più vita? Il problema non è solo trattenere i giovani, ma formarli. Le scuole alberghiere hanno cucine attrezzatissime ma poche risorse per le materie prime: così gli studenti cucinano due mesi all’anno, il resto lo passano tra teoria e speranze. Non basta. Senza un percorso chiaro e una carriera definita, il 15% degli studenti che oggi resta nel settore si ridurrà ancora di più. La proposta della Federazione è chiara: turni unici, due o tre giorni liberi a settimana, riduzione del costo del lavoro per permettere nuove assunzioni, spazi dignitosi con spogliatoi, armadietti, benefit. E soprattutto stipendi adeguati, con scatti di crescita programmati. Perché nessuno può pensare di tenere un giovane a 1.200 euro al mese per anni senza offrirgli prospettive. Se non ci sarà una riforma profonda, il rischio è che la definizione di “schiavitù sottopagata” non resti più una provocazione, ma diventi la lapide di un mestiere che ha reso grande l’Italia. La cucina italiana è uno dei pilastri del turismo e dell’identità nazionale: perderla significherebbe amputare un pezzo di Made in Italy. La cucina italiana oggi è a un bivio: o cambia, investendo su qualità della vita oltre che dei piatti, oppure rischia l’estinzione. Non è più il tempo del mito dello chef con la giacca bianca sudata e la brigata infinita. È il tempo di un nuovo modello, che restituisca dignità a chi porta avanti ogni giorno, nel silenzio delle cucine, il nome dell’Italia nel mondo.

 

Fonte: Italia a Tavola – “Il mito dello chef è finito: turni infiniti e stipendi da fame svuotano le cucine”

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