di Andrea Nardello

Evento normale o complotto?

Da diverso tempo ed in particolar modo nell’ultimo periodo, si sente parlare senza sosta di complottismo, complottista, complotto. Termini che campeggiano nei discorsi politici e nei social con sempre più frequenza.

Complottismo è un termine di recente introduzione nella lingua, motivato da nuove esigenze di costume; in pratica è un “neologismo”.

Nello specifico, complottismo viene usato per indicare l’attività di chi organizza complotti, una tendenza a interpretare ogni evento come un complotto o parte di esso. Chi ritiene che dietro a molti accadimenti si nascondano cospirazioni, trame e complotti, viene definito “complottista”.

Nasce per gioco e si trasforma in ‘religione’

La nascita del complottismo, così come lo conosciamo oggi, si può far risalire alla fine degli anni ‘60 in America, e più precisamente a un’operazione di controcultura denominata operazione Mindfuck (gioco mentale). Al tempo, gli Stati Uniti erano pervasi da movimenti hippie e situazionisti, che provavano a cambiare il mondo cercando di ribaltare l’ordine costituito e la narrazione dominante.

A gettare le basi, più o meno inconsapevolmente, di quel fenomeno che solo qualche decennio dopo avrebbe fatto credere a 12 milioni di persone che il mondo è dominato da rettili umanoidi, furono Greg Hill e Kerry Thornley. Ispirandosi al culto della dea greca del caos, Eris, fondarono il discordianesimo: una religione costruita sull’idea che l’ordine era solo un’illusione, una proiezione della mente umana, e che alla base di tutto ci fosse il caos. L’operazione Mindfuck nacque proprio dal discordianesimo, e il suo obiettivo era quello di portare le persone a un tale stato di disorientamento e confusione da far crollare le loro rigide credenze, giungendo così a una sorta di illuminazione. Nella pratica però non funzionò proprio così, vista anche la tendenza di molti discordiani a scivolare nella schizofrenia paranoide. Almeno all’inizio, comunque, il discordianesimo voleva essere uno scherzo. Ma più andava avanti, più assumeva i contorni di una ‘religione’.

Hill e Thorney ritenevano che non ci fossero buoni e cattivi, ma semplice paradosso e contraddizione. Ecco, quindi, che il paradosso e la contraddizione prendono forma in un “noi contro di loro”, la base del pensiero del complotto.

Il ragionamento dietro al complotto è sempre lo stesso, a ritroso. Date determinate premesse, si cerca qualsiasi evidenza o congettura che possa convalidare la tesi. È un circolo vizioso impossibile da spezzare, in cui una serie di coincidenze legate fra loro da eventi insignificanti, vengono reinterpretate come prove a favore.

Il ruolo dei social nella diffusione fenomeno del complottismo

Le piattaforme dei social network hanno contribuito a decentralizzare quello che era il potere dei mezzi di comunicazione tradizionali. La conseguenza è stata quindi l’aver alimentato i canali di comunicazione non tradizionali, come quelli pseudoscientifici. Tuttavia, ridurre il problema a questo, implica non considerare che alla base della proliferazione di notizie false sui social non ci sia un problema di offerta, ma di domanda. L’idea che i social abbiano creato le condizioni del nostro rancore, della nostra paranoia e del nostro odio contro i poteri forti, difficilmente regge.

Facebook, Twitter e gli altri social hanno capito prima di altri che per attirare l’attenzione delle persone bisognava sfruttare il potere della comunità per creare identità. La polarizzazione che hanno generato è stata una dei motivi per cui in molti dicono che il sistema sia truccato. Tuttavia, come scrive Richard Fletcher, Senior Research Fellow presso il Reuters Institute for the Study of Journalism dell’università di Oxford, “concentrarsi sulle filter bubble (l’ambiente virtuale che ciascun utente costruisce in Internet tramite le sue selezioni preferenziali, caratterizzato da scarsa permeabilità alla novità e alto livello di autoreferenzialità) può farci fraintendere i meccanismi in gioco, e potrebbe anche distrarci da problemi un po’ più pressanti”.

Preoccuparsi del fatto che una determinata affermazione sia vera o meno, manca l’obiettivo di persuadere gli altri a cambiare richieste, per convincerli che starebbero meglio con delle aspirazioni diverse. È un progetto politico. Ed è giusto quindi che venga trattato come tale; anche perché innalzare i soli giganti della tecnologia a capro espiatorio significa ridurre il tutto all’ennesimo complotto.

Andrea Nardello

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