Agi.  “Certo, tutto quello che si ripropone senza grande sforzo intellettuale viene a noia. Perché poi non è che l’innovazione di per sé sia godevole e persistente. Può essere godevole ma istantanea, perciò effimera, non durevole”, dice in questa conversazione con l’Agi  Paolo Crepet, psichiatra, sociologo, scrittore e divulgatore

Professor Crepet, cosa sta succedendo? Vuole dire che è l’inizio di una crisi dei social?

“Su Facebook si sono già addensate nubi che hanno costretto la dirigenza a cambiare. Adesso stanno entrando nuovi social che sono contro-social. Ce n’è uno che sta spopolando, Clubhouse, il contro-Instagram, che è una sorta di ritratto e autoritratto delle persone con sui ci si trovo in quel momento. Sembra un po’ complicato, ma i ragazzi lo fanno facilmente. Non so bene a cosa serva, ma sta di fatto che è contro la staticità, la ripetizione, la bellezza che Instagram propone. Quella di fare la foto tirata, la foto bella e seduttiva”.

Tutto questo produce noia?

“Anche. Ma dico che tutti i movimenti artistici hanno goduto di un lungo periodo di gestazione e sviluppo, nonostante fossero di grandissima rottura con l’immediato passato.

A cosa pensa, in particolare?

“Penso ai Surrealisti, agli Impressionisti. Correnti che sono state delle innovazioni, hanno spaccato il classicismo sia dal punto di vista tecnico sia concettuale che del mercato. Però dei Surrealisti andiamo ancora a vedere le mostre, ma non so se tra cent’anni ci sarà qualcuno che andrà a guardare Facebook. Ce lo vendono come un bene del momento, non destinato a durare. Istantaneo, è questo che genera noia. La noia si determina quando si ripetono gesti, parole, atti che hanno solo una fruibilità immediata. E l’errore tipico della prima rivoluzione industriale: ripetere sino alla nausea i gesti. È la catena di montaggio che ha dato vita ai sindacati creando gli anticorpi. È la chiave inglese di Charlie Chaplin in ‘Tempi moderni’ che ha fatto sindacato. La ripetitività delle azioni, e il capitalismo è stato costretto a correre ai ripari, inventandosi altre modalità”.

Vuole dire che il nostro affanno quotidiano è vincere la noia?

“Certo, ma per una parte dell’umanità. L’umanità non è una categoria sindacale, siamo tutti diversi e abbiamo sensibilità differenti. Dire quel che stiamo dicendo vale per una cospicua minoranza degli acquirenti della rete digitale, chiamiamoli con il loro none. Oggi ci saranno milioni di persone, non necessariamente tutti giovani, che andranno al mare o in montagna e fotograferanno il risotto allo zafferano e lo posteranno. Questi qui non si stanno annoiando”.

Allora, chi s’annoia?

“Il vero valore rivoluzionario della noia è di chi se ne accorge e ne ha coscienza”.

Però lei predica che annoiarsi è giusto. Consiglia ai genitori di far annoiare i figli e di non soccorrerli con continue sollecitazioni distraenti… Annoiarsi fa bene, lei dice.

“Certo, ci siamo passati tutti in gioventù. Facevamo cose che poi si riproducevano in maniera estenuante e alcuni di noi hanno cominciato a dire ‘basta con la discoteca!’ piuttosto che ‘basta andare al mare a Jesolo’. È lì che è nata l‘idea di andare in Croazia, del viaggio alternativo per spezzare la routine. Si facevano 350 chilometri in più ma si trovava un mare diverso, più bello, altra gente da incontrare. Non ci fosse stata la noia di Jesolo, da lì non ci si sarebbe mai mossi. Qualcuno invece c’è riuscito. Dico Jesolo per dire qualsiasi posto che viene alla nausea, rutiniero… Il problema risiede nella riproducibilità di un’emozione”.

Noia come fonte di salvezza, riscatto?

“Certamente. Quando l’emozione è riproducibile in quanto tale, non diversamente, lì scatta la noia. Lì ci si salva. La salvezza è un prodotto della noia”.

Lei dice che se fosse il capo di un’azienda che produce social network si preoccuperebbe per le conseguenze della noia, perché?

“Sono anni ormai che si sfrutta questo strumento dei social, abbastanza simile per dinamica e ripetitività. È la stessa evoluzione dei telefonini poi diventati smartphone. All’inizio c’era un telefono portatile, poi sono arrivati i messaggi, le foto, la connettività, la navigazione, whatsapp, un’evoluzione che è stata sfruttamento intensivo di pochi centimetri quadri di uno strumento. La novità però non era l’hardware ma il software. Certo, c’era anche un Nokia che si apriva a libretto, ma ha avuto vita breve. Ci sono state aziende che hanno avuto una grandissima popolarità e poi sono morte. Penso al BlackBerry, usato da Obama. Esiste anche la morte del digitale, non è che qualsiasi cosa si faccia in digitale duri in eterno… Muore l’hardware, quel tipo di telefonino, sopravvive il software che cambia e s’inventa un altro involucro ma alla fine sempre sull’egocentrismo punta”.

In sintesi, lei dice che la tecnologia e matura, siamo a un punto limite?

“Sì, di maturazione e di esaurimento”.

E sta per subentrare la noia. Ma la noia è anche creativa in quanto dirompente. Rivoluzionaria.

“Certo, infatti, secondo me, ci saranno nel prossimo futuro delle sottopopolazioni, è sempre così, delle avanguardie, sempre così è andata, che s’inventeranno delle vite con pochissimo utilizzo del digitale. È come il fenomeno Polaroid. Negli anni ’50 Polaroid fece il miracolo di far vedere subito la fotografia appena scattata. Solo tre minuti d’attesa e la foto era pronta. Da Wharol a lo stesso Toscani, tantissimi fotografi l’hanno usata perché era la tecnologia del momento che faceva fare cose che altre macchine non consentivano. La Polaroid è morta. Dal punto di vista del consumo, del suo commercio”.

Agi

Ti è piaciuto questo articolo? Condividilo su:
Stampa questa notizia