Una vicenda che offre un monito chiaro: la rete non è un rifugio per l’irresponsabilità. Ogni post, commento o condivisione è una forma di comunicazione pubblica e, come tale, comporta diritti ma anche doveri. La libertà di parola è un pilastro della democrazia, ma perde di valore se si trasforma in arma di denigrazione.
In un’epoca in cui la reputazione può essere distrutta con un click, ricordare che “scrivere su Facebook è come parlare in pubblico” non è solo un avvertimento legale, ma anche un atto di educazione civica. Nel mondo digitale, dove bastano pochi secondi per scrivere un commento o condividere un post, si tende spesso a dimenticare che ciò che si pubblica sui social network ha le stesse conseguenze legali delle parole pronunciate o scritte nella vita reale. Lo ricorda con forza una recente sentenza del Tribunale Ordinario di Roma, Sezione IV Penale, che ha condannato Oria Gargano, fondatrice della cooperativa Be Free contro la violenza di genere, per diffamazione aggravata nei confronti della criminologa Roberta Bruzzone.
I fatti
La vicenda trae origine da una serie di post pubblicati su Facebook da Gargano, nei quali , secondo il Tribunale, venivano formulate affermazioni “gravemente lesive dell’onore e della reputazione professionale” della dottoressa Bruzzone.
Il giudice, accogliendo integralmente le conclusioni della parte civile, ha riconosciuto la piena fondatezza delle accuse, sottolineando come le espressioni utilizzate avessero “carattere oggettivamente offensivo” e fossero “idonee a ledere la reputazione e la credibilità professionale” della criminologa.
La condanna ha previsto reclusione, multa, risarcimento danni (da quantificare in sede civile) e il rimborso delle spese legali in favore della parte civile, assistita dall’avvocato Serena Gasperini.
Libertà di espressione sì, ma entro i confini della legge
“Le parole hanno un peso – ha commentato Roberta Bruzzone – e quando vengono usate per colpire e diffamare, la legge deve intervenire”.
Un concetto ribadito anche dall’avvocato Gasperini, che ha definito la sentenza “una riaffermazione di un principio basilare: la libertà di opinione non può trasformarsi in licenza di insulto”.
Il Tribunale ha infatti precisato che le dichiarazioni rese non rientravano nell’esercizio del diritto di cronaca o di critica, ma costituivano “offese gratuite prive di riscontro oggettivo”.
Il diritto digitale: social e responsabilità
La decisione segna un passaggio significativo nella giurisprudenza italiana in materia di diffamazione online. Sempre più spesso, i tribunali riconoscono che i social network non sono “zone franche”, ma luoghi pubblici dove valgono le stesse norme del codice penale e civile.
Scrivere un post diffamatorio su Facebook, X (ex Twitter) o Instagram equivale, a tutti gli effetti, a diffondere una dichiarazione pubblica: chi offende, accusa senza prove o danneggia la reputazione altrui può essere perseguito per diffamazione aggravata a mezzo stampa o con altro mezzo di pubblicità, ai sensi dell’articolo 595 del Codice Penale.
di Redazione AltovicentinOnline
