di Patrizia Vita

Cosa non torna nel sistema Giustizia in Italia – dai processi lunghi, alle sentenze (inique alcune, ‘feroci’ e vicine all’accanimento altre), sino a quegli scoperti inciuci tra magistratura e politica – non occorre un indovino o un esperto giurista per definirlo. Ma che almeno si tentasse una sorta di diplomatica difesa del suo essere ab origine ‘organismo di legalità’, almeno apparente, questo sì che sarebbe occorso un indovino o un esperto giurista per asserirlo.

Parliamo del caso del Pm romano Luca Palamara, indagato a Perugia per corruzione. Ex presidente di Anm, componente del Csm, dal primo espulso solo pochi giorni fa; dal secondo sospeso lo scorso anno a seguito dell’inchiesta perugina.

Ebbene, Palamara, nell’apprendere la ‘cacciata’ dall’associazione nazionale magistrati (primo caso nella storia di Anm) ci era andato giù pesante contro i colleghi che hanno dato l’ok alla sua espulsione.

“Sono disposto a dimettermi – ha detto appena 11 giorni fa – ma solo se ci sarà una presa di coscienza collettiva e se insieme a me si dimetteranno tutti coloro che fanno parte di questo sistema. Non farò il capro espiatorio di un sistema. Non mi sottrarrò alle responsabilità politiche del mio operato per aver accettato ‘regole del gioco’ sempre più discutibili. Ma dev’essere chiaro che non ho mai agito da solo. Sarebbe troppo facile pensare questo. Penso ad alcuni componenti del collegio dei probiviri che oggi chiedono la mia espulsione, oppure a quelli che ricoprono ruoli di vertice all’interno del gruppo di Unicost, o addirittura ad alcuni di quelli che siedono nell’attuale Comitato direttivo centrale e che hanno rimosso il ricordo delle loro cene e dei loro incontri con i responsabili Giustizia dei partiti di riferimento”.

Palamara lo diceva 11 giorni fa. Lasciava intendere, quel magistrato che tanto sottintendeva di sapere, che tanti colleghi poteva trascinare nella sua rovinosa caduta.

Lo ha fatto? E’ stato audito per conoscere il significato delle sue non tanto sibilline parole? Sino a questo momento non si sa. Anzi, si potrebbe ritenere che le sue parole non abbiano avuto alcun peso, tanto da determinare una indagine sulla condotta di altri componenti di Anm e del Csm, viste le richieste di provvedimenti disciplinare, formulate dal Procuratore generale della Cassazione, Giovanni Salvi, a carico di soli 10 magistrati, per i quali ha chiesto il processo alla sezione disciplinare del Csm.

Dieci. Soltanto dieci. E sono quelli che parteciparono all’incontro avvenuto in un albergo di Roma nel quale si discusse di nomine giudiziarie. In particolare di quelle ai vertici delle principali Procure italiane. E nella richiesta non c’è nemmeno una personale iniziativa del procuratore generale, perché è un atto dovuto, visto quanto emerso dalle chat nell’inchiesta di Perugia su Palamara.

L’incontro romano, infatti, secondo la procura perugina, sarebbe stata una sorta di summit nel quale evidente appariva la commistione tra politica e magistratura: vi si decisero i ruoli da affidare ai vari colleghi, a prescindere da meriti o grado di anzianità, ma piuttosto secondo la logica dell’appartenenza a questa o a quella corrente politica o della vicinanza a questo o a quel partito.

Tra i magistrati per i quali Salvi ha chiesto il provvedimento disciplinare, oltre lo stesso Palamara, anche per i 5 ex-togati del Csm dimissionari lo scorso anno, Antonio Lepre, Luigi Spina, Corrado Cartoni, Gianluigi Morlini e Paolo Criscuoli, ed ancora per l’ex-pm romano Stefano Fava, l’ex-pm della Dna, Cesare Sirignano, più due magistrati segretari del Csm, per uno dei quali la richiesta di giudizio disciplinare era già stata avanzata. Per Cosimo Ferri, in aspettativa, fedelissimo di Matteo Renzi e deputato di Iv, è stata chiesta l’autorizzazione a usare le conversazioni intercettate alla Camera.

Ma a lasciare supporre che non si fermi ai soli 10 componenti della magistratura, la richiesta di giustizia disciplinare, ci sono le parole di Salvi: “La Procura generale della Cassazione – ha detto il Pg – sta ancora lavorando all’esame delle chat contenute nel telefono cellulare di Palamara. Non è possibile parlare di numeri e nomi, neanche nei prossimi giorni. Il lavoro deve essere completato. E non ci può essere alcuna anticipazione fino a quando le persone coinvolte non avranno avuto la notificazione dei provvedimenti”.

Altri nomi, dunque, potrebbero venire fuori dalle intercettazioni. Ma la domanda rimane: se Palamara ha detto chiaramente che non intende affondare da solo, perché non farlo parlare direttamente?

E poi, in tutto questo rimane il paradosso che a giudicare la magistratura sia la stessa magistratura. Ed ecco che si invoca, come ha fatto Vittorio Sgarbi, una commissione d’inchiesta che scavi a fondo su verità che hanno appena fatto capolino con l’inchiesta di Perugia. “Magistratopoli – ha detto Sgarbi – e tutto il caso che ruota intorno a Palamara meritano una commissione d’inchiesta parlamentare come venne fatto per la P2. Il parlamento esiste per quello, nella magistratura ci sono persone che non garantiscono equilibrio ed equidistanza”.

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