In un mondo cresciuto all’ombra dei social media e della connettività perpetua, la questione dell’identità assume contorni sempre più fluidi e sfuggenti. Candida Morvillo, nel suo acuto commento sul ‘Corriere della Sera’, tocca un nervo scoperto della società moderna: la tendenza a giudicare prontamente gli altri, spesso senza una piena comprensione delle storie dietro le facciate. “Perché abbiamo sempre bisogno di giudicare?” chiede Morvillo, sollevando il velo su una pratica tanto comune quanto insidiosa. Il giudizio, un tempo dominio dei tribunali e delle istanze superiori, è oggi diventato moneta corrente nelle nostre interazioni quotidiane, spesso erogato senza misura né cautela. E mentre ci affanniamo a catalogare gli altri in categorie sempre più ristrette, rischiamo di perdere di vista la ricchezza umana che si nasconde dietro le etichette. Morvillo ci invita a una riflessione più profonda: è realmente costruendo un mosaico di giudizi che vogliamo definire noi stessi? Non sarebbe forse più  costruttivo dedicarsi alla comprensione piuttosto che alla critica? “Costruendo al meglio le nostre [vite]” anziché “giudicando le vite degli altri”, come suggerisce Morvillo, potremmo scoprire una via più autentica verso la comprensione di noi stessi e degli altri. Il giudizio precipitoso non è solo una facile via di fuga dalla complessità del vivere con gli altri; è una barriera che erigiamo tra noi e il mondo, un filtro che distorce la nostra visione e impoverisce la nostra esperienza. È tempo, dunque, di porre un freno all’impulso di giudicare e di aprire un dialogo basato su
un’ascolto genuino e su un’apertura empatica. In questa ricerca, possiamo ritrovare non solo l’altro, ma anche noi stessi, rifuggendo da una società che troppo spesso si compiace delle tragedie altrui anziché celebrare le potenzialità umane. In un epilogo che suona quasi come una preghiera laica, Morvillo ci esorta a una maggiore consapevolezza del nostro ruolo nel tessuto sociale. “Non darci le risposte ora, adesso,” implora, suggerendo che solo attraverso il silenzio e la riflessione possiamo sperare di allontanarci dalle tragedie che un giudizio superficiale può infliggere. La questione, allora, diventa una di scelta personale e collettiva: continueremo a essere gli artefici di identità frantumate e monolitiche o diventeremo i costruttori di un tessuto sociale più ricco e comprensivo? Nel mondo in cui viviamo, dove l’immagine e la percezione esterna hanno spesso la meglio sulla sostanza e sulla verità interiore, il richiamo di Morvillo a una maggiore introspezione e a un dialogo più autentico è più che mai attuale e necessario.

V.R.

Ecco il forte articolo di Candida Morvillo sulla ristoratrice uccisa dalla gogna del web

Questo è uno di quei momenti in cui, prima che la verità, conta la compassione. Questa è la storia di una ristoratrice che, per promuovere il suo locale, s’inventa forse la falsa recensione di un falso cliente infastidito dalla presenza di disabili e gay, diventa un’eroina nazionale, viene poi accusata da una coppia d’influencer d’aver mentito e, infine, viene trovata morta, suicida, secondo la famiglia. E, ora, ci sarebbe da discutere su chi decide cosa è vero e cosa è falso, se Selvaggia Lucarelli, se il fidanzato cuoco, se la Cassazione, se un giornalista, se il «popolo del web» o se il senso critico di ciascuno di noi.

Ci sarebbe da discutere se ci fa più orrore l’ipotesi di qualcuno che si fa pubblicità usando gli ultimi e i deboli o qualcuno che si fa pubblicità rivendicando di essere il giustiziere che ha scatenato un caso il cui epilogo è un essere umano che si suicida. È più accettabile, per modo di dire, promuovere se stessi abusando dei buoni sentimenti o promuoversi  facendo leva sui sentimenti peggiori delle persone, la riprovazione, l’odio?

 

Ci sarebbe da discutere di molte cose che hanno a che fare con uno spirito dei tempi a velocità moltiplicata in cui non è vero ciò che appare ma diventa vero ciò che fa più clic e in cui fa più clic ciò che, vero o falso, attira più commenti negativi e insulti. Ci sarebbe tanto da dire, se non fosse che davanti alla perdita di una vita umana bisognerebbe zittire l’ego, aprire il cuore anzitutto alla umana pietà e chiederci dove e se abbiamo sbagliato anche noi. Sia noi che facciamo informazione, sia noi che semplicemente commentiamo, parliamo, giudichiamo, spariamo sentenze.

In questa brutta storia della ristoratrice di Sant’Angelo Lodigiano Giovanna Pedretti che ha perso la vita, chi  ha ritenuto di smascherarla non ha espresso, finora, una parola di compassione. Questo è il giorno in cui forse stabiliremo se la perdita di una vita possa essere il fisiologico danno collaterale di uno scoop vero o da dimostrare. Eppure, quando a Forlì il suicidio del ventiquattrenne Daniele seguì a un servizio delle Iene, Selvaggia Lucarelli parlò di «un metodo senza pietà», il metodo da lei spiegato era: aspettare un uomo sotto casa, renderlo riconoscibile, inseguirlo coi microfoni. Ma ora, nel post che segue il ritrovamento del corpo di Giovanna, Selvaggia Lucarelli fa considerazioni diverse: «Una persona inventa una storia usando disabili e gay per avere quella popolarità sui social che ormai tutti vogliono. Lo fa confezionando un commento fatto male, molto ingenuo da un punto di vista tecnico. Era chiaramente falso al primo sguardo. Tutta la stampa italiana va dietro al primo che dà la notizia senza verificare. Tutta. Gli influencer la riprendono. La signora diventa l’eroina nazionale. La signora è la star del giorno. Qualcuno si prende la briga di fare debunking. Qualcuno dice che la notizia che è in home su tutti i giornali è falsa. Normale amministrazione ormai. Purtroppo. La signora viene trovata morta». Viene trovata morta. Amen.

Eppure, al momento, non vi è la certezza che il post che ha innescato il caso fosse un fake e nessuno sa se e perché Giovanna Pedretti ha deciso di togliersi la vita, se ha cercato il suicidio perché si vergognava per essere stata scoperta, se al contrario perché è stata accusata ingiustamente e non ha retto lo scherno che rimbalzava sui media e nelle chiacchiere da bar, oppure se si è uccisa per altri, privatissimi, motivi o chi sa. Quando non sappiamo, dovremmo fermare il giogo delle accuse e delle speculazioni, interrogarci anzitutto sulle responsabilità che abbiamo, noi giornalisti, che avremmo dovuto fare un fact cecking più accurato, noi che ogni volta che riferiamo di polemiche social ci accontentiamo di contare quanti sono pro e quanti contro, e tutti noi quando con leggerezza commentiamo gli scivoloni degli altri, provati o no.

Lucarelli si è affrettata a dire «non c’era manco stata questa gogna di cui si sta parlando sui social». Però un servizio al Tg e un post rilanciato da un profilo da un milione e 300 mila followers possono pesare in maniera devastante su una persona non abituata alle dinamiche della reputazione mediatica. Quindi, la prima domanda è: come misuriamo la portata di una gogna?

Inoltre: chi decide cosa è vero e cosa è falso? I magistrati indagheranno sui device a disposizione della ristoratrice per capire la verità, ma in attesa dei risultati, che sia uno chef stellato o un giornalista ad analizzare le font di una recensione e a tirare delle conclusioni, forse, sarebbe il caso di usare il condizionale.

Adesso tutti si chiedono se la vittima avesse altri problemi. Sempre Lucarelli sembra alludere a temi di salute mentale: «Temo quindi che si sappia troppo poco dei pregressi, della storia personale. Come sempre, del resto. E i pregressi – drammatici – purtroppo ci sono, ma non è il momento di parlarne». Dunque, la domanda numero tre è: pure a essere convinti in buona fede di avere la verità in tasca, si può puntare il dito contro qualcuno e porsi il problema della sua fragilità solo quando muore?

Infine, la domanda numero quattro è: davanti a una tragedia, a una vita interrotta, prima di auto assolversi, prima rivendicare di avere ragione, non bisognerebbe chiedersi se si è sbagliato qualcosa?

Dentro questa storia precipitano tutte le domande di quest’era social. Ognuno può aggiungere la sua. Qual è il potere delle parole? Quale quello della verità e quale quello della menzogna? Qual è il ruolo dei giornalisti? Quale quello dei commentatori da tastiera? Ma soprattutto: perché abbiamo sempre bisogno di giudicare? Perché giudichiamo anche senza saperne abbastanza? Perché riteniamo di profilare la nostra identità giudicando le vite degli altri anziché costruendo al meglio le nostre?

Non darci le risposte ora, adesso, potrà portare solo altre tragedie e, di sicuro, non ci renderà migliori.

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